“On-line” al bivio tra free e pay

A vent’anni dalla nascita del web (e dalla sua rinascita con il web 2.0), internet rischia l’esplosione di una nuova bolla. Non si tratta più in questo caso degli investimenti perduti in società che non hanno mantenuto le promesse di conquista di nuovi e redditizi territori virtuali, ma di aspettative che svaniscono ancora prima di concretizzarsi.



Pur avendolo scritto molte volte, giova ripeterlo fino alla noia: la mancanza di una visione a lungo termine delle imprese dei media, troppo concentrate a spremere il limone dalle attività correnti e consolidate, provoca – di fronte all’impatto della crisi mondiale – reazioni improvvisate e approcci non supportati da adeguate sperimentazioni.



La stampa generalista sta attraversando una crisi molto grave: il fortissimo calo di pubblicità (fenomeno di carattere mondiale) sta provocando clamorose chiusure di testate storiche o drastici ridimensionamenti. La stampa specializzata, in più, se la deve vedere con i siti altrettanto specializzati, molto più performanti, accessibili da dovunque, realizzati senza costi di carta, stampa, immagazzinamento e distribuzione.

È noto che la televisione “tiene” maggiormente, ma se le sue perdite sono pari a meno della metà di quelle della stampa, significa ugualmente che i tempi delle vacche grasse sono finiti. L’una e l’altra se la devono comunque vedere con la parcellizzazione delle audience e con un mercato non più omogeneo ma costituito da tante piccole nicchie.



Dal “broad-casting” al “narrow-casting”

Per comprendere le difficoltà di operare nel nuovo scenario che si sta disegnando, basta fare un semplice ragionamento. Dall’era del “broad-casting”, vale a dire della comunicazione “da uno a molti”, si è passati a quella del “narrow-casting”, cioè la comunicazione “da uno a uno”. È molto facile capire quanto fosse economicamente vantaggiosa e redditizia la prima opzione: con un solo prodotto di comunicazione (informazione, programma, spot, ecc) si raggiungevano ad un tempo milioni di utenti e consumatori. Mentre la seconda opzione comporta la creazione di tanti prodotti di comunicazione diversi a seconda delle tante nicchie di mercato, e inoltre tende paradossalmente alla necessità di creare addirittura un prodotto di comunicazione su misura per ogni utente. Con in più la complicazione che la comunicazione “a due vie”, offrendo l’opportunità di un dialogo interattivo a utenti e consumatori, comporta anche l’obbligo di mantenerlo e sostenerlo, con ulteriori costi aggiuntivi che prima non esistevano.

Internet = gratis?

La natura gratuita dell’offerta web nel suo complesso ha costituito un “imprinting” molto forte per le classi giovanili, che per prime hanno saputo padroneggiare e popolare l’ambiente internet. Nel contempo le aziende editoriali hanno cominciato a proporre un’enorme quantità di offerta gratuita, consolidando nei giovani utenti la convinzione che tutto ciò che viaggia su internet è o deve essere “gratis”. La riprova l’abbiamo con il problema del download illegale, che esiste certamente per i detentori dei diritti, ma che non viene considerato tale dalla maggioranza assoluta dei giovani.

Il New York Times ci informa che – pressati da problemi di bilancio – il loro stesso editore e molti altri come Hearst Newspapers, Time Inc., Time Warner e ora anche la News Corp di Rupert Murdoch, stanno pensando di introdurre tariffe per i loro servizi on-line.

Ma la vera domanda che tutti si fanno è: come convincere gli utenti a pagare servizi che fino ad ora erano stati a loro disposizione gratuitamente? Nei seminari di marketing c’è chi sostiene che se i consumatori sono disposti a pagare per ciò che prima era gratuito (ad esempio l’extra bagaglio, le consumazioni, i pasti e addirittura i cuscini, come preteso da molte compagnie aeree) non si capisce perché non dovrebbero essere disposti a pagare per i servizi on-line.

Si paga solo ciò che ha valore

La risposta la dà con molta chiarezza Prya Raghubir, professore di marketing alla Stern School of Business presso la New York University: «Un utente paga se ha la sensazione di ottenere qualcosa di esclusivo o di indifferibile in quel momento…per quanto riguarda le news, devono contenere elementi introvabili altrove». E così si capisce perché Murdoch – che in passato aveva promesso di rendere gratuito il sito del Wall Street Journal – ha deciso di continuare a far pagare i lettori, e non solo quelli del giornale finanziario, che comunque fornisce informazioni talmente utili e qualificate da giustificare il contributo. I primi tentativi di far pagare una quota per l’accesso ad alcuni contenuti on-line, messi in atto dal Los Angeles Times e dal New York Times, sono però stati subito interrotti appena ci si è resi conto dell’effetto negativo sul numero dei lettori e quindi sulla raccolta pubblicitaria.

Insomma, per dirla terra terra, sembra che gli editori si stiano accorgendo che è davvero difficile «mungere i buoi una volta che sono scappati dalle stalle». Forse sarà più facile ripiegare sull’economia della terza parte (così l’ha battezzata Chris Anderson), vale a dire con l’offerta gratuita di contenuti e servizi pagati dalla pubblicità. Proprio come si è sempre fatto fino ad oggi: tutto cambia perché nulla cambi?