Sia per l’animazione in 3D, suggestiva ma poco legata alle esigenze sceniche, sia per lo svolgimento della trama, indecisa tra film per adulti e film per bambini, Coraline e la porta magica rappresenta un’occasione perduta, attestando sul livello di un gradevole passatempo quello che po-teva essere un capolavoro. Prima di perdersi nel tentativo di non spaventare troppo l’eventuale pub-blico d’infanti, la trama offre infatti alcuni spunti decisamente suggestivi.



In breve, Coraline è una ragazzina al confine tra infanzia e adolescenza che – da poco trasfe-ritasi in una landa miserevole – accusa a ragione la trascuratezza dei propri genitori, passando le giornate a esplorare la bizzarra casa in cui è giunta. In una di queste esplorazioni, una porta murata – scoperchiata per mera curiosità – diventa la chiave d’accesso a un mondo parallelo, in cui tutto è uguale a quello presente ma migliore, più desiderabile: la madre servizievole, il padre brioso, il vi-cino di casa – ragazzetto chiacchierone e un po’ tocco – mutato in un cicisbeo muto e ossequioso. Vi è una sola stranezza, facilmente messa a tacere dall’entusiasmo: tutti quanti hanno dei bottoni al posto degli occhi.



Per potere varcare la soglia tra i due mondi, Coraline deve inizialmente attendere il sonno, ma poco dopo viene a padroneggiare il passaggio anche da sveglia.

È a questo punto che accade l’avvenimento più geniale del film, quando al culmine della contentezza, Coraline viene invitata dalla sua “altra madre” a restare lì per sempre, semplicemente facendosi cucire due bottoni al posto degli occhi. Spaventata, la ragazzina rifiuta, e di fronte all’amore violento e goffo dell’“altra madre” fugge, convinta che una svolta sveglia, nel mondo vero, non tornerà mai più in quel posto rivelatosi sinistro. Ma – con sorpresa e disappunto – al suo risveglio Coraline è ancora lì, prigioniera di un sogno creato da lei, ma del quale non ha più il controllo.



Da qui in avanti, la trama s’incanala nel solco della fiaba, accompagnando i protagonisti verso il più classico degli happy end. Su un piano meno scontato, tuttavia, emergono due aspetti che ben simboleggiano l’esperienza umana di fronte all’alternativa tra realtà e utopia.

Il primo è l’ingestibilità del sogno: creato per lenire la fatica del reale, per esserne un’alternativa a buon mercato, il sogno diventa presto più faticoso, più impegnativo, fino ad arrivare a dominare il proprio creatore, a impedirgli di staccarsene. I

L secondo aspetto è la pretesa che il sogno esercita sul suo creatore: nessuno, infatti, può mai essere un degno cittadino del mondo ideale che crea. Anche qui è evidente come a Coraline, per essere all’altezza di quel mondo utopico e senza imperfezioni che l’aspetta di là dal muro, per poter essere degna del sogno da lei stessa creato, venga in ultimo chie-sto di cambiare, di essere diversa da sé, di mettersi i bottoni al posto degli occhi.

Nulla di troppo lontano dall’episodio di Calipso o dalla narrazione incantata del giardino di Armida: sorprende però che queste suggestioni, pur confuse nei difetti di svolgimento del film, e-mergano ancora vive oggi, in un’epoca che erige la virtualità a esperienza e in cui quella separazio-ne di intelletto e senso lamentata da Eliot non è più difetto da correggere, ma regola da perseguire.

(Daniele Gigli)