Il film di Francesca Comencini racconta una distanza. La distanza immensa che separa Maria – quarantenne, insegnante di scuole serali, esistenza anarchica e solitaria – dai bambini. Da quelli che vede effigiati nelle foto sugli schermi dei cellulari dei suoi ex, ormai felicemente padri. Da quelli che la disturbano durante la consueta sessione cinematografica pomeridiana. Da quelli che spia sospettosa nei passeggini, tondi e assopiti. Da quelli che frequentano i locali dell’asilo nido dove, per cronica mancanza di sedi, è costretta a tenere le sue lezioni. Da quelli che sciamano rumorosi per strada, infagottati nei bianchi vestiti delle prime comunioni. Da quelli affacciati ai balconi, intenti ai loro giochi.
Una distanza tanto immensa che colmarla sembra impossibile: impossibile, almeno quanto la sopravvivenza di un neonato prematuro, costretto per respirare a restare attaccato a un’incubatrice, che fa le veci dell’utero perduto. Eppure Maria (Margherita Buy percorre questa distanza: resta involontariamente incinta, viene sorpresa dalle doglie al sesto mese di gravidanza e partorisce Irene. Scopre così che la distanza davvero immensa è quella che separa la sua piccola dalla vita vera: la distanza che passa tra essere partoriti e nascere, fatta di uno spazio bianco, riempito soltanto dal silenzio e dall’attesa.
La Comencini racconta questo silenzio – sottolineato dalle belle musiche di Nicola Tescari -, racconta questa attesa – messa a fuoco dalla pregevole fotografia di Luca Bigazzi -; racconta quanta fatica, quanta sofferenza, quanta pazienza ci vuole per fare una vita. Lo sa chi sia passato almeno una volta dal reparto maternità di un ospedale, ancora meglio se nella sezione riservata ai prematuri, e abbia visto le madri che tessono giorno dopo giorno, con la loro sola presenza, l’esistenza e la resistenza dei loro figli. E quando nella storia fa capolino il caso straziante di un aborto fallito, di un neonato sopravvissuto da rianimare, dell’invasione della corsia da parte delle forze dell’ordine, c’è attenzione, ma non giudizio: perché la vita è mistero, e Maria (nome materno per eccellenza) lo impara insieme a sua figlia.
Francesca Comencini racconta, o tenta di raccontare, anche altro: la solitudine delle donne, i magistrati sempre in minoranza, la piaga dell’usura, gli incidenti sul lavoro, le difficoltà dell’immigrazione. Ma nulla di questo fa davvero storia, nulla di questo conta, quando si tratta di decidere se nei due mesi che seguono il parto Irene stia nascendo, o morendo. Lo spazio bianco assorbe tutto, il “tutto” che Maria promette alla bambina se riuscirà a respirare da sola, gettandosi la sua vita disordinata e insensata alle spalle, ricominciando da capo: da capo, come quando in un compito in classe non si sa come proseguire – e si lascia sul foglio uno spazio bianco, e più in basso si ricomincia a scrivere.