Ogni giorno nel mondo decine di milioni di persone trascorrono complessivamente 5 miliardi di minuti su Facebook. I 250 milioni di “amici” che frequentano il più popolare social network del momento, ogni settimana scambiano in media un miliardo di “oggetti digitali”: in buona parte fotografie e links, una larga fetta dei quali rimandano a siti di informazione. Milioni di altri links del genere, che inviano a loro volta ad articoli, video o foto giornalistici, vengono scambiati continuamente su Twitter. E poi ci sono Google, Google News e gli altri siti dell’impero del colosso californiano, che spingono un traffico enorme verso ogni angolo del web (facendo soldi con le inserzioni pubblicitarie collegate).
Facebook, Twitter e Google contribuiscono così a rimodellare l’ecosistema dell’informazione globale. Anche tramite loro, ma più in generale grazie alle potenzialità di Internet, abbiamo un accesso alle notizie mai sperimentato prima, e le possiamo “consumare” in qualsiasi momento, grazie al diffondersi delle connessioni wireless e di piattaforme mobili come iPhone e BlackBerry.
Ma questa esplosione delle news crea due problemi. In primo luogo siamo così bombardati dalle informazioni che ci occorre qualcuno, credibile e autorevole, che ci aiuti a organizzarle, digerirle e renderle utilizzabili nel corso di giornate di lavoro o di studio che lasciano poco tempo libero per “navigare” la rete. Inoltre, perché la catena alimentare di questo nuovo ecosistema dell’informazione non si blocchi, occorre che a nutrirla sia continuamente un “plancton” di notizie – invisibile ai più, ma decisivo – che come in un oceano faccia vivere tutti gli organismi, da quelli microscopici alle balene.
Siamo fortunati, perché luoghi che sfornano plancton informativo e si occupano di organizzare e semplificare la mole di notizie che c’é in giro, esistono già: si chiamano redazioni, che siano quelle dei giornali, delle reti radiotelevisive, o di siti web come ilsussidiario.net. Il guaio è che sono strutture che costano. Da qui il dibattito in corso su come tenerle in piedi, ora che ci siamo abituati a trovare le news gratis in qualsiasi angolo della rete.
Uno studio presentato di recente al Congresso USA da Tom Rosenstiel, direttore del Pew Research Center’s Project for Excellence in Journalism, sfata innanzitutto alcuni miti. La stragrande maggioranza delle notizie di cui sono pieni i blog e i social networks, in ultima analisi arriva oggi come ieri dalle redazioni dei giornali: il citizen journalism è una prospettiva interessante e importante, ma a raccogliere in prima battuta le notizie su politica, economia, affari internazionali, cultura, cronaca, sport, restano i professionisti dell’informazione.
Inoltre, la crisi attuale dei giornali è di profitti, soprattutto pubblicitari, ma non di audience: la tiratura dei quotidiani Usa lo scorso anno è calata del 4,6%, ma i visitatori dei loro siti web sono aumentati del 15,8%, a 65 milioni. I giornali, in versione cartacea o digitale, vengono letti oggi assai più di prima. Il traffico sui 50 principali siti di news americani nel 2008 è cresciuto del 27%. Ma il prezzo di un’inserzione pubblicitaria online è caduto nello stesso tempo del 48%.
Ecco allora che fioriscono le ricette per un nuovo modello di business. Rupert Murdoch, forte del successo dei contenuti a pagamento del suo Wall Street Journal, conta di proseguire sulla strada degli abbonamenti, estendendola anche alla versione per iPhone. In Italia, il presidente del gruppo L’Espresso, Carlo De Benedetti, ha appena lanciato dalle pagine del Sole 24Ore una proposta “all’italiana”, che ricorda un po’ il canone Rai: visto che il giornalismo è un bene comune, è il ragionamento, si prelievi un tot dalle bollette delle connessioni a internet di tutti e lo si destini ai giornali.
In America prevalgono altre ipotesi, anche se lo stesso presidente Barack Obama non ha escluso la possibilità di un intervento dello Stato, sotto forma però di vantaggi fiscali alle testate giornalistiche che scelgano la strada del non-profit. C’è chi propone sistemi di micropagamento per le notizie online, ma l’idea di girare per la Rete con un “borsellino elettronico” non piace molto e il modello iTunes difficilmente funziona per le news: un brano musicale lo si compra perché fa compagnia tutta la vita, un articolo lo si consuma in pochi minuti e non ha certo il valore di Yesterday dei Beatles.
Ci sono allo studio ipotesi di creare spazi “Vip” sui siti delle news, offrendo approfondimenti, analisi e maggiori contenuti multimediali a chi è disposto a pagarli. Un meccanismo che ricorda quello dell’industria dell’acqua: chi si accontenta di quella del rubinetto (le notizie per tutti, in gran parte di cronaca, che resteranno gratis), potrà continuare a berla, ma per una modica cifra saranno disponibili versioni gassata, effervescente naturale, o liscia ma con una sorgente garantita.
C’è poi l’idea di una grande alleanza dei gruppi editoriali per sviluppare un sistema unico che permetta, con una sola username e password, di girare le aree a pagamento dei siti senza dover rallentare al “casello” per pagare il pedaggio. Una sorta di Telepass dell’informazione, con relativa bolletta a fine mese. Centinaia di editori stanno valutando un progetto del genere, dai contenuti ancora top secret, messo a punto dalla società specializzata JournalismOnline.
Quel che sembra certo, è che l’era delle notizie tutte gratis online sta per finire. Con decine di start-up al lavoro nella Silicon Valley per sviluppare modelli di pagamento – e Google impegnata a sua volta a far proposte -, è chiaro che è solo una questione di tempo prima che la catena alimentare chieda il conto.
(2 – continua)