Credi di essere morto e di essere allInferno. Invece sei vivo e sei in Paradiso. Sei nel braccio C di Oz, Oswald State Penitantiary, e non cè via duscita. Anche se vogliono farti credere il contrario.
Tim McManus, soprannominato dai detenuti il Redentore, ha creato appositamente questa sezione nel carcere di Oz con lobiettivo di riabilitare i carcerati ed educarli alla vita che li aspetterà fuori dalle sbarre. Celle di plexiglas, rigorosa disciplina, lezioni, mansioni nelle varie officine del carcere. I poliziotti non lasciano mai soli i loro uomini, che prima di tutto devono imparare a sopravvivere. Si, perché a discapito del nome, in Paradiso non abitano dei Santi ma dei criminali che di immacolato non hanno più niente.
Esiste davvero la possibilità di cambiamento? davvero possibile modificare lattitudine al male di una persona insegnandogli la disciplina? Soprattutto, che differenza cè tra un omicidio violento e la morte concessa a un tuo compagno di carcere che te la chiede espressamente?
Quando Dino, il carcerato italiano che è al centro della prima puntata, soffoca Fernandez, malato terminale di Aids, il suo atto sembra quasi unazione redentrice. O forse no, visto che lui stesso, proprio per questo, verrà picchiato a sangue e sedato dalle guardie, ma morirà bruciato vivo da un suo rivale con la complicità di un secondino.
Dunque, una serie coraggiosa. Nei temi, estremamente ricchi. Nella scrittura, abbastanza convincente in questa prima puntata e che non lascia nulla all’immaginazione. Nel tono, crudele e violento con lo spettatore e mai retorico. Non sarebbe potuto essere altrimenti. Perché non si può parlare del carcere e far finta che sia un regno incantato. Anche nel film Le ali della libertà il tono era duro, ma non così crudo.
Venivano raccontati gli abusi subiti, il clima di terrore sotto cui erano schiacciati i detenuti più deboli. Lì però c’era la speranza. Qui, alla fine della prima puntata, c’è solo la certezza della morte.
L’insegnamento, tuttavia, sembra essere comune: devi lottare per sopravvivere.
È anche per questo che si resta schiacciati sullo schienale del divano mentre si guarda la puntata. Tutti, ogni giorno, cerchiamo di sopravvivere, di fare in modo che il nostro “vicino cattivo” non ci sovrasti. È facile lottare quando sei libero. Tutto assume una dimensione più angosciante se sei con le mani legate, in gattabuia, dove le regole disciplinari esistono, ma solo sulla carta. È violento constatare quanto si sia attaccati alla vita mentre te la stanno togliendo. Questo tono claustrofobico, poi, viene accentuato anche dal ritmo sostenuto e dall’assenza di scene in esterna. Siamo letteralmente in gabbia.
Noi spettatori non viviamo l’ora d’aria dei nostri carcerati, e anche le celle di plexiglas dietro cui dormono i prescelti del Paradiso sembrano piuttosto le gabbie delle cavie. Non a caso una delle immagini finali – quella di Augustus, il nostro narratore – sembra lo raffiguri in una di quelle ruote usate dai criceti in gabbia. Peccato che il nero Augustus sia su una sedia a rotelle.
Meno apprezzabile del tono schietto è la scrittura. Buona sì, ma impegnata su troppi personaggi, troppe dinamiche da raccontare per permettersi di indugiare a lungo su alcuni di loro. L’impressione è che non sia tanto la loro caratterizzazione ad aver interessato gli ideatori, quanto le brutali dinamiche della vita del carcere. Per cui tra gang rivali ci si scontra a suon di coltelli e il rispetto ce lo si guadagna, e quando lo si perde è perché si sta già per morire.
Libertà, rispetto, sopravvivenza, redenzione. Non c’è via di fuga.
Il Paradiso può attendere.