Una sconfinata giovinezza di Pupi Avati è più che un bel film, è un film umano. E Dio sa se in questi tempi tristi tutti noi non abbiamo bisogno di qualche cosa che ci aiuti a risollevare lo sguardo. La storia è innanzitutto quella di un amore coniugale che il tempo non ha spento, che il dolore per la mancanza di figli non ha intristito, che i capelli grigi hanno reso più rispettoso e maturo. Lui è la firma più autorevole della redazione sportiva del Messaggero, lei è docente universitaria. 

Ma qualcosa si incrina nella mente di lui: la memoria si inceppa, la scrittura non è più limpida. Una visita neurologica segnala i sintomi del morbo di Alzheimer. E necessario cercare un nuovo equilibrio per ogni fase della malattia, che lesperienza medica prevede con precisione: dapprima laggressività, poi la confusione tra presente e passato, infine il progressivo ritorno alletà infantile. Lamore di lei si china sulla fragilità di lui con intelligenza e sacrificio e la richiesta di aiuto di lui, almeno nella fase iniziale del male, ha espressioni di grande tenerezza.

Lambiente di lavoro reagisce con sorpresa e incredulità, la grande famiglia di lei la sostiene in ogni modo: la sorella la ospita in casa sua quando diventa pericolosa la convivenza con il marito, il fratello le offre la sua competenza di specialista. Lei accompagna il marito nella discesa verso linfanzia quasi fosse il figlio che non ha avuto, gioca con lui a tollini sulla pista disegnata nellingresso della loro casa, sdraiata per terra a rifare le corse dei ciclisti del passato.

Ma un incidente dauto rompe questa dolorosa e dolce complicità. Rimasto solo in casa mentre lei è ricoverata in ospedale, lui si perde sempre più nei meandri del suo passato e fugge verso la campagna bolognese in cui aveva vissuto da piccolo, quando era rimasto orfano ed era stato accolto dagli zii. Vuole ritrovare i suoi compagni di giochi, vuole riavere il suo cane.

Dagli interni di Roma il paesaggio si allarga alle colline emiliane, con gli alberi stagliati contro il cielo  soffuso di nebbia leggera, dalle stanze di un lavoro frenetico si passa alle vecchie case di campagna piene di tranquillità. In questo modo, con continui rimandi tra presente e passato, vengono rievocati i giochi, le confidenze, le curiosità dei ragazzi di un ambiente dagli orizzonti chiusi, che è restato nella memoria ammalata del protagonista lunico luogo in cui la coscienza riafferra qualche squarcio di vita e di compagnia.

Continua

 

Anche il legame con il cane, unico sopravvissuto alla disgrazia che ha ucciso i suoi genitori, e che ha un nome strano, Perché. Quale ne sia stata l’origine, il nome di Perché è troppo particolare per non nascondere il significato di una domanda o di una spiegazione. Il film non mette a tema esplicitamente né l’una né l’altra, ma  in chi lo guarda esse affiorano in modo quasi inconsapevole e riportano a galla gli interrogativi che ognuno ha di fronte alla vita: perché la malattia, perché il contatto con la realtà si annebbi, perché si mantenga quello che c’è stato anni prima, perché l’amore riesca a riannodare i fili di una comunicazione non più possibile sul piano logico, perché la famiglia sia una risorsa insostituibile, perché mentre tutto si perde l’essenziale non va perduto.

Il film si mantiene sul filo di una recitazione sobria, grazie anche alla bravura  dei due protagonisti: lei impeccabile, elegante di una finezza anche spirituale, lui uomo di successo che ora  si ritrova smarrito e barcollante. Qui è la vita stessa che racconta, sono le lacrime delle cose, invisibili e più eloquenti di qualsiasi discorso, è il dolore nudo, che non permette commenti.

E’ offerta la possibilità di immaginare il non detto e il non rappresentato, non solo della malattia, ma anche della convivenza. Proprio come non di rado accade di osservare nella vita reale,  in situazioni analoghe a quella  narrata dal film. Le coppie anziane che si sorreggono al sopraggiungere dell’invalidità  sono l’emblema di quanto grande, sconfinata appunto, sia la giovinezza dell’amore.