Mamma Mia, che disastro! In scena a Milano, prima tappa di un probabile tour italiano, il musical esercita un potente potere di attrazione sui più giovani (e meno), sulla scia anche del successo planetario del film con Meryl Streep protagonista.

In un piovoso sabato pomeriggio la sala è gremita di un pubblico di bambini e adolescenti, accompagnati da altrettanti  giovani mamme e papà che non hanno laria di essere stati trascinati a forza, piuttosto  paiono desiderosi di farsi emotivamente coinvolgere in un nostalgico salto back in the 80ies, epoca in cui probabilmente indossavano anche loro gonnellone e zoccoli, eskimo e Clarks blu.

Non si tratta qui di sollevare la questione del provincialismo delloperazione consistente nella presunta necessità di tradurre i testi originali in italiano né dellevidente e per certi versi imbarazzante fragilità tecnico-espressiva degli artisti che fa traballare più di una volta limpianto stesso dello spettacolo, quanto di affrontare la questione dei contenuti della vicenda rappresentata.

Questi, resi ancora più evidenti e smascherati dalla traduzione che mette a nudo ciò che forse in inglese aveva il pregio di restare più nellombra, emergono con tutta la loro contagiosa potenza pop.
Gli insistenti riferimenti sessuali, spunto totalizzante delle battute, fanno da leit motiv a una vicenda a dir poco deboluccia, rabberciata come si poteva sulle canzoni originali degli Abba.

Eppure la gente ride e applaude quasi a comando, sulla scorta delle emozioni che dal palco vengono suscitate in una sorta di nuovo catechismo per ragazzi del sabato pomeriggio. Il finale poi non perde loccasione per tirare la volata a una moderna concezione di famiglia dove accanto a un tradizionale mamma più papà, anche due papà stanno benissimo, con pari dignità. E qui, al coming out di un candidato padre, scatta lapplauso commosso dei più.

Così in poco più di due ore viene proprio fatto fuori il padre. Come concetto. E con lui il rapporto uomo-donna. Sophie, la giovane protagonista allevata da mamma sua, scopre di avere più padri potenziali, si danna per capire quale sia quello vero e alla fine li accetta tutti e tre . Sarebbe davvero magistrale e da sottoscrivere la battuta di commento alla sua scoperta – Si passa la vita a cercare un padre, per poi scoprirne allimprovviso di averne tre se solo si trovasse in un altro contesto.
 

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E’ un momento felice per un figlio quando riesce a scoprire di avere più di un padre, nel senso che il concetto di padre si estende dal primo papà a tutti coloro che sanno introdurlo alla realtà, presentandone i benefici ricavabili all’interno di un rapporto. Solo la colpevole e assurda gelosia di un padre biologico che si pone come unica fonte di bene può minare questa graziosa disposizione del bambino a rivolgersi a tutti gli sportelli che gli risultano convenienti. 

Così un parente, un amico di casa, il papà di un compagno, un catechista o un insegnante possono diventare oggetto di una preferenza che, degnamente corrisposta, rende grande il soggetto dentro il rapporto, alla scoperta che il bene non si autogenera, ma arriva sempre tramite un altro. Molti di noi hanno fatto questa esperienza di paternità su di sé.

Ma è un momento felice anche quando anche un genitore si accorge che per fare un figlio non basta generarlo nella biologia, bisogna comunque adottarlo. Ossia iniziare a riconoscerlo come non proprio, a vederlo come altro da sé cui trasmettere i propri beni e i proprio talenti dentro un rapporto ereditario. Senza bisogno di morire prima del tempo.

Peccato che i tre grandi che accompagnano Sophie al matrimonio si presentino paradossalmente come tre padri tout court, proprio e solo in quanto biologici, e che la giovane, sulla scena, se ne rallegri tanto. Viene da chiedersi a cosa le serviranno mai nella vita…

Peccato anche che tutti applaudano e facciano “Ohhh”, commossi e storditi da un’emozione irragionevole che annebbia la vista e il giudizio su ciò che è appena stato rappresentato e proposto.
Mamma mia! Ci serve davvero un padre per rimettere le cose a posto.