In unepoca grondante sentimentalismo ma vuota di sentimenti, LIllusionista ci riporta con grazia al nucleo più profondo delluomo, la nostalgia per qualcosa che non sa dire.

Non è certo per i bambini che Sylvain Chomet, già regista del raffinato Appuntamento a Belville, ha realizzato questo film danimazione senza parole, omaggio alla poesia dimenticata del muto e del vaudeville.

La grazia immaginifica del regista incontra la sceneggiatura originale di Jaques Tatisticheff, celebre creatore del tragicomico Monsieur Hulot. Sophie, figlia dellattore, ha cercato per anni mani sapienti cui affidare il testo postumo, fino allincontro con la matita di Chomet che ha disegnato, con devozione, il suo protagonista sui goffi tratti di Tatì.

Si parla del tramontare di un mondo, a metà degli anni 50, quando il fiume in piena della modernità minaccia di morte chi non sa adattarsi ai nuovi dettami del mercato.

Jacques Tatischeff è un illusionista ramingo che gira lEuropa vendendo la sua arte, merce ormai disprezzata e derisa, nella terra desolata in cui anche i bambini sanno che i maghi non esistono.
Declassato, passa da esibizioni in polverosi teatri vuoti a stamberghe con vecchi alcolizzati.

Lo soppiantano complessi rock caricaturali, gonfiati dal ciuffo priestliano e dal portamento femmineo, satira reazionaria che ammicca al rammollirsi dei tempi e al tramonto della virilità. Un cambiamento antropologico che coinvolge anche il pubblico che perde la sua compostezza e si scatena in reazioni isteriche e capelli strappati.

 

In una bettola persa nelle nebbie scozzesi Jacques trova finalmente la rozza accoglienza dei pastori, pronti a farsi stupire dalla magia. Ma la modernità lo insegue e un diabolico jukebox squarcia la serata col suo delirio.

Nel villaggetto incontra Alice, proverissima sguattera, incantata dai suoi trucchi e accecata dalla fiducia nell’onnipotenza del mago. Con goffa tenerezza Jaques si affeziona alla ragazza che lo segue nel suo peregrinare, compagna di viaggio che parla una lingua diversa ma intima, in un rapporto delicato, fatto di cose non dette e di un’intimità alla Lost in translation.

Trovano rifugio a Edimburgo, città malinconica resa abbagliante dal tratto cupo di Chomet, dove affittano un bilocale in un albergo per artisti in disgrazia. Tra il ventriloquo alcolizzato e il clown con tendenze suicide si dipinge il declino di un’era, una comicità intrisa di lacrime che si infila nei dettagli.

Il consumismo galoppante contagia l’ingenua Alice, sognante pellicce e gonne a ruota: Jacques, che lei chiama papà, per continuare a stupirla deve rimediare denaro facendo il garagista. Goffo e inadeguato alla vita si ritrova puntualmente licenziato, ridotto a vendere la sua arte al più spietato simbolo della nuova era senz’anima.

 

In un degrado apparentemente senza speranza rimane solo, ma capace di un ultimo atto d’amore: lasciare andare Alice incontro al suo destino, lontano da lui. In uno dei finali più toccanti della storia dell’animazione la notte avanza sulla merce esibita in vetrina, sugli strumenti di arti dimenticate svenduti dal robivecchi, sulla vita calpestata di Jaques, su quella sbocciante di Alice. Ma è una tristezza così intrisa di splendore che lascia aperta la speranza di una luce, in qualche luogo, che resista nascosta in mezzo a tutto il nostro buio.

Dopo 90 minuti, in sala tutti realizzano sorpresi di non aver sentito la mancanza delle parole, di aver capito tutto e con più profondità solo grazie alle immagini. E’ il cinema, bellezza. Intessuto di un silenzio cui siamo così disabituati e che circonda gesti e oggetti investendoli di luce e grazia.
Il caricaturale disprezzo per il moderno non inquina la dolcezza del film, subito ricondotto alla tristezza esistenziale di personaggi inadatti a vivere.

E la critica a un sistema che rischia di mangiarsi ciò che abbiamo di più vero lascia il posto a qualcosa di più profondo, alla nostalgia per un altrove. Una speranza che non sappiamo dire, ma che rimane punto fermo da cui i protagonisti non possono fare a meno, ancora una volta, di ripartire.