Ci sono luoghi in cui è vietato amare ed altri in cui se ne è perso il significato. Vedere I fiori di Kirkuk serve anche per capire questo, il senso di una scelta non scontata nei tempi moderni.

Il film, coproduzione italiana e distribuito da Medusa, nasce dalla mano di Fariborz Kamkari, regista curdo-iraniano che con determinazione racconta la vicenda di Najla e Sherko, due giovani medici conosciutisi in Italia. Irachena lei, curdo lui. Il che, in termini storici, significa un amore impossibile, soprattutto negli anni in cui la dura repressione di Saddam Hussein ha strappato ai propri villaggi migliaia di curdi, relegandoli nelle peggiori prigioni, torturandoli o giustiziandoli.

Non per questo I fiori di Kirkuk è un film crudo. Ci sono alcune immagini violente, ma sono giustificate dallintento di denuncia della pellicola, finalizzata anche a mostrarci ciò che i servizi al telegiornale non hanno mai esposto. In compenso, però, è un film crudele. Parla di amore, certo. Quello di Sherko verso la propria etnia, per la quale decide di restare in Iraq nonostante il regime ostile al proprio popolo. Quello di Najla verso Sherko, che potrebbe essere letto semplicemente come laffetto di una donna verso un uomo, in realtà nasconde molto altro.

I fiori di Kirkuk non è semplicemente la storia di una donna imprudente che sfida un amore proibito dalle contingenze storiche. un film sullaffermazione di sé, a livello individuale – qualsiasi cosa comporti -, che poi assume una dimensione universale, se calato nel contesto storico. una storia sul libero arbitrio nel senso più stretto dellespressione, in cui il senso di libertà/liberazione è dato dalla spinta a compiere delle scelte mai messe in discussione. Najla resta al fianco di Sherko, nonostante significhi gettare onta sulla sua famiglia di origine, irachena e legata alle tradizioni, e nonostante il pericolo in cui mette se stessa, Sherko e lintero villaggio curdo si possa tramutare in una condanna a morte.

Sin dalle prime immagini del film capiamo che Najla è diversa. A un posto di blocco si ferma a raccogliere una bambola mutilata dal continuo passaggio dei carri armati. La bambola rimanda a tutti i bambini che ci hanno giocato e ci giocheranno, ovvero al futuro, forse possibile proprio grazie a lei.

 

È una pellicola sul valore dell’amore puro. Quello che, nella sua essenza, è un dare senza voler ricevere. Per questo I fiori di Kirkuk è un film interreligioso e interculturale. Perché fa incontrare una donna irachena, un uomo curdo e li fa innamorare di un sentimento cristiano. Come anche le scene di Najla e Sherko in fuga verso l’Iran su un mulo e con un bambino da salvare raccontano.

 

In questo senso è decisamente un film di parte. O politico. Perché nel denunciare l’eccidio, afferma il diritto di esistere di ciascuna etnia o religione. Il regista ci dice che bisogna lottare per ottenere quello che si vuole. Che l’amore può farlo, ma che c’è una posta in gioco: il sacrificio. Anch’esso valore cristiano, che dà nuova vita, speranza per il futuro. L’importante è che si lasci testimonianza di questo sacrificio. Come fa Najla, che scrive un diario in cui trovano voce tutti i condannati di un paese che, come recita la dedica del film “uccide i propri figli”.