Se c’è un insegnamento che si può trarre dalla seconda stagione di “Glee”, è il come distruggere velocemente e con precisione da cecchino, una delle serie televisive più belle, divertenti e commuoventi degli ultimi anni. Il miracolo è durato poco, appena tredici puntate, ovvero la prima parte della prima stagione. Da questo punto in poi solo una grande caduta libera verso il fondo di un burrone, ma senza dolore da parte degli autori (tra cui figura Ryan Murphy, “Nip/tuck”) che sono atterrati su un bel materasso riempito di tutti quei paperdollari che hanno fatto guadagnare alla Fox, che ha già confermato la terza stagione dello show.

Eppure c’è poco da gioire per la terza stagione prossima ventura perchè, diciamolo, ormai “Glee” è diventata solamente una macchina per soldi, e lo dimostra in maniera chiara questa seconda stagione, costruita ad hoc con canzoni più conosciute della precedente che di fatto diventano più importanti della storia e delle vite dei personaggi, perchè le vite dei personaggi non si possono scaricare a pagamento da iTunes, mentre le canzoni sì.

Mi sembra lontanissimo il momento in cui mi imbattei in “Glee” e me ne innamorai immediatamente. C’era poco da fare, non si poteva resistere alla macchina da guerra messa in piedi da Ryan Murphy, Ian Brennan e Brad Falchuk, capace di descrivere con leggerezza (ma non con stupidità) il mondo degli adolescenti, con il coraggio di affrontare tematiche scottanti (l’omosessualità, la maternità, l’amicizia, l’amore, la scoperta di sè stessi) in maniera seria e divertita al contempo, il tutto condito da una scelta musicale varia ed originale ben eseguita dai protagonisti della serie.

Se nella prima serie trionfavano i personaggi con le loro debolezze, le loro scelte e, sempre e comunque, il loro coraggio di guardare la vita negli occhi, in questa seconda stagione trionfano le macchiette, le esagerazioni, in sostanza la trasformazione dei personaggi in fumetti bidimensionali alla continua ricerca di una tridimensionalità riscattata da una messa in scena del dolore farsesca e ricattatoria.

E in questo modo "Glee" finisce per non emozionare mai, per annoiare spesso e volentieri, a parte i rarissimi momenti in cui qualcosa fila per il verso giusto, come la bella evoluzione del personaggio di Sue Sylvester, sorretto grazie alla ruvida simpatia di Jane Lynch, oppure i numeri musicali sempre e comunque sorretti dalle ottime qualità interpretative dei giovani protagonisti e da coreografie sempre azzeccate. 

Manca l’emozione vera, mancano i sentimenti (non solo quelli positivi), manca l’empatia dello spettatore con i protagonisti. Il tutto è diventata una grossa soap-opera musicale, una telenovela per e con  teenager incapaci di misurarsi con il dolore, con la gioia, con il divertimento e con la noia, la cui vita scorre senza senso verso un traguardo che non esiste. Tant’è che fino a quando il Glee Club aveva uno scopo (vincere le finali del concorso canoro) la serie è andata avanti senza problemi, mentre ora che non c’è scopo ma solo desideri utopici, la serie zoppica e arranca.

Ormai sembra impossibile un’inversione di rotta: la serie è diventata un business nelle mani della Fox, che ne farà ciò che vuole, presumibilmente altri soldi. Dispiace solo per la grande occasione persa, perchè "Glee" poteva diventare senza troppi problemi la serie generazionale che da tempo si cercava. Lo diventerà comunque (forse non Italia, ma negli States lo è già), ma sarà la serie generazionale di individui stupidi e facilmente ingannabili, che sarebbero potuti però diventare persone che capaci di pensare. Con la testa e con il cuore.