Esce oggi nelle sale cinematografiche “La bellezza del somaro”, diretto e interpretato da Sergio Castellitto. Un film che vede nel cast Enzo Jannacci nei panni di Armando, un ultrasettantenne che ha una relazione con una ragazza nemmeno diciottenne. Per il cantautore milanese si tratta di un ritorno nel mondo dello spettacolo dopo diversi anni di assenza. A ilsussidiario.net Jannacci racconta questa sua esperienza. E non solo.



                     

Dopo tanti anni lei è tornato al cinema e ha sorpreso tutti. Perché ha deciso di fare questo film?

 

Sette, otto anni fa avevo deciso di togliermi dalla mischia perché sentivo che mi stavo assuefacendo ai gusti che si stavano deteriorando e prendevano piede man mano che passavano gli anni, nella cultura, nella musica, nei sapori, nell’amore, nel desiderio. E questo non mi stava bene. Non mi prenda per uno snob. Sono sempre stato un introverso, ma questo non vuol dire che non pensi costantemente alla gente, ai suoi problemi, alla sua fame. Poi mi ha contattato Castellitto e per la grande stima che ho di lui ho accettato. Sergio è un grande artista, sia come attore che come regista; sia che abbia a che fare col tragico che con il comico. Un comico come Castellitto è un tragico visto di spalle, come diceva Molière. Anche tutti gli altri attori sono uno più bravo dell’altro.



Lei in questo film interpreta un ruolo strano, quello di Armando, un uomo di 75 anni innamorato di una ragazza diciassettenne. Ma Armando chi è?

 

Posso immaginare che Sergio e Margaret abbiano inventato questo tizio per spiazzare le fasi di un registro corale, fatto da giovani e meno giovani. Al Sud si dice “la bellezza del somaro”, da noi si dice “la belessa dell’asïn”, perché il giovane è bello per forza… come la forza dell’amore che è anche la forza della sofferenza. Armando è un po’ un filosofo della mutua, che però sa tirare fuori il meglio da quelli che ha intorno.



Perché è stato scelto proprio lei per fare Armando?

 

Non so chi a 75 anni abbia voglia di farsi vedere al cinema, in teatro, e dire che ha 75 anni. I più si tingono i capelli, si truccano, cambiano le sopracciglia e soprattutto non rivelano l’età, e io li capisco. C’è qualcosa che fa parte del mistero di un attore, che poi è lo stesso di quello di un operaio (per esempio, nessuno ha mai saputo quanti anni avesse Vittorio Gassman). Sono nato un po’ strano, estemporaneo, curioso: di questo c’era bisogno per fare Armando.

 

Armando ha qualcosa di lei, quell’entrare in punta di piedi nelle situazioni che lei racconta nelle sue canzoni, come una timidezza di chi vede sempre le cose più grandi di sé.

Sono sempre stato timido, ancora adesso faccio fatica a chiedere informazioni alla signorina del supermercato. Quello che la gente si ricorda di me sono le entrate a passettini, che non erano una trovata artistica, ma venivano dal fatto che avevo paura di disturbare.

 

C’è una carica vitale che la supera da tutte le parti. Forse è per questo che hanno chiamato lei. Ma da dove viene questa carica vitale?

 

Da chi ho davanti, da chi incontro, da quello che guardo, da dove penso arrivi la musica.

 

Cosa le insegna, se le insegna qualcosa, il rapporto tra generazioni? 

 

La mia domanda è se esista davvero una diversità tra generazioni. Perché il nostro essere, il nostro pianeta riconducibile al cuore o al cervello, il nostro essere umani, ti accomuna agli altri, ti fa essere vicino a tutti, mai diverso da una persona che ha meno anni, meno gambe, meno capelli, che non vuole mettersi gli occhiali…

 

Nel film sembra che non ci siano situazioni personali normali. Ma la normalità esiste?

 

La normalità come la penso io è essere te stesso, sapendo che ci vuole una misura anche nella tua cattiveria. Essere buoni non può voler dire non essere cattivi, ma essere disponibili ai desideri, ai bisogni. La normalità è poter dire di essere a casa.

 

È contento di aver fatto il film?

 

Sì. Questo film riguarda la consapevolezza del proprio essere, di quanto c’è di buono o di cattivo, ma per questo ci vogliono dei maestri. Questo Armando a un certo punto dice: non ci sono più maestri, ma solo esperti di settore. È vero.

 

Ma chi è il maestro?

Vede, io sono molto legato a una canzone che si intitola “Ti te se no” che descrive il mondo neorealista di Zavattini. Nella canzone il protagonista ogni giorno va a lavorare e poi torna a casa. Ma un giorno, quella volta, mentre torna a casa, guarda… Bisogna tornare a guardare. Le persone in genere, non sanno, non pensano a quanto si abbia bisogno di educazione. Anch’io andavo a giocare al pallone quando c’era l’ora di religione. Sa perché? Perché era sbagliato l’educatore.

 

Che cosa l’ha educata di più nella vita?

 

Io amo talmente la musica e la bellezza, le amo talmente perché sento che se tu ne prendi dei pezzi, dei piccoli svolazzi, come quei foulard che nelle serate di moda si vedono svolazzare… Solo che la musica è un continuo svolazzare di foulard, va avanti da sola e uno deve essere lì pronto ad ascoltare, perché poi lei va via. Però può essere che qualche volta si ferma e anche lei ascolta, perché c’è anche la musica che ascolta. La gente non cerca l’episodio di un ragazzo che al buio… come mi è successo ieri sera che ero per strada e mi sembrava che arrivasse una bicicletta, io ho visto che la bicicletta era senza luci e il ragazzo in sella era nero, grande e grosso (e anche la bicicletta era molto grossa), allora io ho detto: “Mamma mia! Una bicicletta vivente!”. La gente cerca delle cose che non esistono in natura, no? La vita per me è concepita da uno che ti mette lì – e io so chi è – … ti ha messo lì e c’è tutta una serie di avvenimenti, di affreschi, di patate sauté, di bistecca con la polenta, di uova fritte… tutte cose che, tra l’altro, piacciono a me, magari agli altri no, ma a me piacciono molto.

 

(Silvia Becciu)