Sam Mendes è sempre stato, sin dal suo esordio con American beauty, un abile ritrattista dell’America moderna e dei suoi sogni distrutti. A partire proprio dall’affresco borghese di American beauty, Mendes traccia il segno di una cinematografia dove il sogno infranto diventa pilastro portante, basti vedere il successivo Era mio padre (in cui il sogno distrutto è l’impossibile unione tra padre e figlio), per poi passare a Jarhead (dove la guerra e lo scontro diventano per i protagonisti un sogno agognato che non arriva mai) e al doloroso e lancinante Revolutionary road, con Mendes ancora alle prese con la descrizione di una famiglia nata alla luce del sogno americano e da essa distrutta.

Sembra quasi strano oggi, trovarsi davanti a un film come American life, l’ultima fatica del regista americano. Non è solo una questione produttiva (questo è un piccolo film dal piccolo budget, mentre gli altri grandi film con grandi star), ma proprio la scelta di Mendes di dirigere una storia così leggera e positiva, ma capace comunque di portare avanti i temi da sempre a lui cari, come la famiglia, l’America e il sogno infranto (che qui però assume significati del tutto differenti rispetto agli altri film).

La sceneggiatura, firmata dallo scrittore Dave Eggers (già visto al cinema come sceneggiatore in Nel paese delle creature selvagge) e da sua moglie Vendela Vida, racconta la storia di Burt e Verona, due fidanzati trentenni che un bel giorno si accorgono di aspettare una bambina. Tutto fila liscio fino al sesto mese, quando i due scoprono che i genitori di Burt vogliono trasferirsi in Belgio per i prossimi due anni. Decade così l’unica ragione per cui Burt e Verona si erano trasferiti lì. I due fidanzati decidono così di partire per un viaggio per scegliere quale potrebbe essere il posto migliore dove far nascere la bambina e dove trovare le persone migliori (amici, parenti) che possano aiutarli a crescerla.

Come sempre, il pregio maggiore di Mendes è la straordinaria capacità di tirare fuori il meglio dagli attori: anche in questo caso, messo al lavoro su Maya Rudolph (Radio America, 50 volte il primo bacio) e John Krasinski (In amore niente regole, Dreamgirls), Sam Mendes estrae dal cilindro due belle prove attoriali, calibrate sui toni della commedia, ma capaci di mostrare improvvisi lampi di serietà (tutti alla loro maniera, naturalmente).

 

L’altro pregio del film è la descrizione di un’America reale, senza i tipici sbilanciamenti del cinema americano, incapace di descrivere il proprio Paese se non attraverso le cupe atmosfere dei bassifondi o le luci scintillanti dei quartieri alti. Mendes compie una scelta complessa ma più originale, ovvero quella di dipingere un’America media, senza nè alti nè bassi, un’America normale dove la gente (soprav)vive tra urla e risate, tra pianti e abbracci, e in cui il sogno infranto dei protagonisti (trovare il posto perfetto per la vita futura della bimba), non sfocia nella tragedia e nel melodramma, ma è la nuova via per fondare la loro unione, il loro amore (saldato da una dichiarazione d’amore commovente e di una semplicità disarmante).

 

È strano vedere il cinema di Sam Mendes sotto un’ottica così rilassata, calma, tranquilla, con una storia piccola piccola, semplice, un road-movie con pancione, una storia di persone normali (cosa che i protagonisti dei film di Mendes non sono mai), da cui emergono però riflessioni importanti. Ma questa volta sottovoce e con un velo di malinconico umorismo.