Nell’ospedale di Lavagna, in provincia di Genova, è mancato Gian, al secolo Gian Favio Bosco. Assieme al compagno di sempre, Riccardo Miniggio, aveva dato origine ad una delle coppie comiche più fertili della scena televisiva italiana. Erano conosciuti e amati da tutti, specialmente tra gli anni ‘60 e ’80. E per tutti, erano semplicemente Ric e Gian. L’esperto di televisione, , lavorò in Rai negli anni dei loro esordi, e racconta a ilsussidiario.net i suoi ricordi delle coppia e, in particolare, di Gian. 



In quali occasioni ebbe a che fare con Ric e Gian?

Li incontrai proprio agli esordi. Allora facevano un particolare tipo di teatro, l’avanspettacolo. Fu Pippo Baudo ad accorgersi di loro e a portarli per la prima volta in tv, in uno speciale di Capodanno. Lì si fecero notare. Io, ai tempi, ero funzionario programmi Rai e lavoravo a Giochi in famiglia, un programma condotto da Mike Buongiorno. Avevamo deciso, nel ’67, di far venire anche loro per una decina di puntate, nelle quali inscenavano numeri che avevano già collaudato. Fu la loro affermazione in tv.



Si affermarono in così poco tempo?

Sì. Basti pensare che, quando  parteciparono a Quelli della domenica, condotto da Raffaella Carrà – il primo varietà pomeridiano dalla Rai – assieme a Paolo Villaggio, e a Cochi e Renato, erano Ric e Gian a rappresentare, per la Rai, la garanzia dei favori del publico.

Anche più di Villaggio e di Cochi e Renato? Com’è possibile?

Perché loro erano già stati accettati dal pubblico. Villaggio, seppur bravissimo, era alle sue prime esibizioni e non piaceva ai telespettatori, perché considerato troppo aggressivo; la Rai credeva poco in lui, tanto è vero che gli faceva firmare un contratto di settimana in settimana. Anche Cochi e Renato si pensava non potessero piacere al di sotto del Po. La forza del programma, quindi erano loro due, perché rappresentavano la tradizione ed una comicità ben rodata. Tutti questi comici, tra di loro – in ogni caso – si divertivano come pazzi; erano di fuori Milano e vivevano in albergo insieme, in una sorta di villa comune.



Quali erano i tratti distintivi della coppia?

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Facevano un tipo di comicità molto popolare, legata al mondo dell’avanspettacolo, ad un pubblico da raggiungere in maniera immediata. Ma il loro incontro con autori come Marcello Marchesi, Italo Terzoli o Enrico Vaime li aveva decisamente arricchiti. Ricevevano da loro contenuti, meccanismi e testi sicuramente più alti di quelli dell’avanspettacolo. Ma la sanguignità e la comunicatività che avevano precedentemente acquisito, erano di grado di trasportarla al pubblico televisivo, valorizzando i contenuti che gli venivano dati. Davano vita a sketch molto raffinati, come quelli incentrati sui modi dire e le frasi fatte; o a gag musicali in cui ripercorrevano i decenni precedenti, raccontando la nascita dal Blues.

 

 

Le migliori qualità di Gian?

I suoi tempi comici erano di una precisione assoluta: sapeva quando era il momento di entrare, quando era il momento di lanciare una battuta e quando uscire. Sapeva far ridere solamente con un’espressione facciale o una smorfia, creando un meccanismo perfetto. Possedeva, inoltre, una grande capacità interpretativa: era, soprattutto, un attore brillante che, all’occorrenza, diventava vittima, dirigente, ricco o povero.


Quelle di  Ric?

 

Era più comico, spontaneo, veniva provocato e rispondeva con una battuta. Come Paolo Villaggio con Gianni Agus: il comico, ovviamente, era Villaggio, ma era Agus a portare avanti la struttura dello sketch.

 

 

Chi sono, secondo lei, i loro eredi?

  

Non vedo eredi  in giro. Da allora, nel mondo della comicità, tutto è cambiato

Che cosa, in particolare?

 

 

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Ric e Gian, come molti comici dell’epoca, erano interpreti che arricchivano un testo. I comici di oggi portano in scena del materiale proprio, o materiale che fanno diventare proprio, con un modo di fare comicità che li identifica. Ric e Gian potevano fare tutto mentre quelli di oggi sanno interpretare solo il loro personaggio. I comici di oggi discendono, con le dovute proporzioni, dalla comicità di Cochi e Renato. I quali erano molti caratterizzati e interpretavano gag sempre e solo alla loro particolare maniera. Ma fare l’avanspettacolo come Ric e Gian era sicuramente molto più difficile.

 


Perché? Dove stava la maggiore difficoltà?

 

Chi andava a vedere l’avanspettacolo voleva, anzitutto, vedere le ballerine; riuscire, quindi, a fare il numero al Crazy Horse – in cui avevano lavorato in passato – dove tutti aspettavano lo spogliarello e far comunque divertire il pubblico non era cosa facile. Far divertire quel tipo di pubblico richiedeva un’abilità, una forza e un’efficacia che i comici di oggi se le scordano. Quelli erano attori, questi intrattenitori. Il varietà non c’è più. I comici di oggi vengono dal cabaret o dai villaggi turistici. Ric e Gian avevano un pubblico da conquistare ogni volta, i comici moderni si rivolgono ad un pubblico che è già conquistato. Chi va a Zelig ci va per ridere.

 

Perché, poco a poco, sono pressoché spariti dal tubo catodico, salve rare parentesi?

 

Perché la tv si è evoluta e ha iniziato a pensare che il mondo di Ric e Gian fosse troppo tradizionale, che non potesse più funzionare. Mentre i dirigenti dei loro esordi provenivano dallo spettacolo, quelli successivi – in un primo tempo – dalla politica, e poi da giri di potere che non avevano nulla a che fare con il  loro lavoro. Quelli di allora capivano, quelli di oggi impongono, attraverso la ripetitività