Dopo La cena per farli conoscere e Il papà di Giovanna, Pupi Avati torna a parlarci di paternità. Stavolta però una paternità svuotata e senza luce. Sullo sfondo, bolle finanziarie in esplosione e il liquefarsi di vite abbozzate, spettri che si muovono irrequieti in un deserto. Residui di persone che, gaberianamente, «appaiono ma non esistono.

Luciano (De Sica) abbandona sulle scalinate della chiesa Fiamma (Laura Morante), sposa illusa, il riso ancora nei capelli e i piccoli figli attoniti per mano. Con la promessa di tornare linfame si lancia col socio Bollino alla conquista del mondo, una scalata finanziaria che lo porterà, truffa dopo truffa, a diventare presidente del colosso immobiliare Baietti.

Lo troviamo dopo 16 anni, arricchito e incattivito, ingabbiato in falsi sempre più rocamboleschi, pilotato dallamministratore Bollino, Richelieu ipocondriaco e machiavellico. Limpero, che si regge come un castello di carte sui ricatti, è eroso da debiti e minacciato dalla magistratura. Per salvare la baracca viene imposto a Luciano un secondo matrimonio di convenienza con una ricca burina.

Ma non basta. Il piano di Bollino prevede che il presidente intesti al figlio minore, abbandonato 16 anni prima, lintero ammontare dei suoi possedimenti, una passività di 55 milioni di euro.
Luciano commenta «Faccio schifo, ma nella sua prigione dorata non sa pensare altra soluzione. Il figlio Baldo, che vive con la madre abbandonata a Bologna in un appartamento sotto sfratto, viene richiamato a villa Baietti con il pretesto di fare da testimone nelle nozze del padre.

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Baldo, patta aperta e andatura da panda, ha nella testa solo bislacchi progetti di film su transessuali cannibali, nel cuore l’amore per la madre nevrotica e la nostalgia per quel padre che non sa credere uno schifo d’uomo. L’assenza di qualsiasi positivo nella figura paterna e nel suo entourage é corollario della critica di Avati alla contemporaneità stretta, giungla di self-made man che vivono di finzioni.

Nessun piglio dipietrino o moralizzatore per il regista, soltanto nostalgia per un’innocenza spensierata che non viva di calcoli, per il candore dell’Idiota di Dosteoevskij. Ma mentre la purezza dell’Idiota letterario é scelta di non affermare sè ma qualcosa di più grande, Baldo é soltanto scemo. In modo commovente, disarmante, ma a tratti fastidioso.

L’ingenuità infantile, vuota di ogni ragione, é infatti un falso valore. Lo dimostra la facilità con cui l’angelico nerd tradisce la fiducia di madre e fratello, abbagliato dal falso sogno di realizzazione cinematografica offertogli da Bollino. Più luminoso forse il personaggio di Fiamma, una svampita Morante, la cui forza viene dall’aspettarsi qualcosa dall’altro, dal marito infame che si ostina a chiamare il migliore.

 

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Una fede folle che vuole il bene di chi l’ha ingannata, un’attesa commovente di qualcosa che però non esiste. Il risultato é la figura di un’adorabile isterica, che sublima il vuoto con gli psicofarmaci e le canzoni new-age cantate in teatri vuoti. Intelligente la scelta di De Sica nel ruolo del furbetto in rovina: raccoglie l’eredità di anni di vacanze di Natale e mette alla prova l’incontestabile potenziale drammatico dell’attore.

 

Ci si sarebbe proprio per questo aspettati di più: Christian, sopracciglio eternamente atteggiato a insofferenza, rimane fisso nel ruolo di leone in gabbia, che pure interpreta con precisione. Nel finale, dopo il crollo rovinoso della Baietti, il padre farà ritorno all’ovile. Un ritorno imposto, vissuto con estraneità, una pallida risposta a quell’attesa colma di bellezza della moglie adorante.

 

Forse per questo, anche con i toni intelligenti e delicati di Avati, il film non convince completamente: i personaggi vivacchiano gli eventi, sono determinati da quel che accade senza opporre una risposta propria, senza esserne cambiati. In quest’ibrido tra critica sociale e melodramma famigliare non é tracciato un percorso di trasformazione: incontriamo così personaggi, anche sfaccettati e intriganti, ma mai persone.