Si dice che il cinema sia la vita senza le parti noiose. Va da sé che il cinema reality, quello che pretende di catturare in maniera naturale lo scorrere degli eventi, trascini dentro di sé la vita per quello che, a grandi linee, è: isole di emozioni circondate da distese di noia. 

Questa noia, poi, viene proiettata su un ampio schermo, potenziandone l’effetto e l’impressione. Paranormal Activity, non-film fenomeno in coda all’anno 2009 è, per buona parte, ontologicamente noioso poiché simula la realtà. A prescindere dalla qualità intrinseca del film o dalla sua capacità di atterrire, rimane, così come fu per The Blair Witch Project (1999), la mia imperitura ammirazione per un’idea cinematografica, o anche operazione di marketing, che con un esborso minimo produce un enorme capitale di guadagno.

A me certe critiche suonano come frutto dell’invidia o, magari peggio, di un classismo intellettual-aristocratico che guarda in cielo verso i pochi capolavori, sputa a terra verso i mille mediocri e non guarda mai davanti a sé, andando inevitabilmente a sbattere. Paranormal Activity ha una sua dignità e, nella stessa misura, ce l’hanno coloro che l’hanno realizzato.

 

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Rimane il problema della qualità artistica della pellicola e del suo strenuo desiderio di farsi passare come vero documento. Quest’ultimo ingranaggio ovviamente non gira; dico ovviamente perché dopo il film del 1999, dopo i vari Grandi Fratelli, dopo i 15 minuti di notorietà che offre YouTube e accoliti, all’effetto realtà non crede più nessuno.

 

Semmai, la ripresa stile reality è buona per creare qualche scena ad hoc che funziona più di un lavoro di fino fatto in camera di montaggio (Rec, 2007, ne è un buon esempio). Paranormal Activity non è un film che decide di essere reality per scelta artistica, è semplicemente reality perché non aveva alternative, dato il budget a disposizione e la non professionalità dell’israeliano Oren Peli, un progettista di videogame con la passione del cinema horror.

La storia alla base è semplicissima: si tratta di una comune ghost-story o, detto meglio, della storia di un imprecisato demone che abita la casa dei due giovani; i due non possono lasciare l’abitazione perché, a quanto si capisce, l’entità seguirebbe comunque la ragazza, ma la cosa forse è un po’ più complessa (alla Entity,1981).


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I due protagonisti non provengono dall’Actor Studio e si vede, ma di buono c’è che lo sanno e non tentano una recitazione particolarmente costruita. Si tratta, di base, di due fidanzati che si aggirano per casa in abiti da, appunto, casa e che, progressivamente, vedono il loro rapporto incrinarsi tanto più il demone dimostra la sua presenza. Tutto qua, e anche un po’ di meno. Nel film, privo di effetti nel senso tradizionale del termine, non si vede nulla di speciale.

Tutte le scene paurose, e quelle lo sono, si svolgono di notte a macchina fissa in camera da letto, mentre i due dormono: tutto si gioca su rumori, sulle impressioni, sul timore che qualcosa spunti dalle scale, o sui comportamenti strani della ragazza che per tre ore di notte sta in piedi a guardare il suo uomo che dorme.

 

Le scene realizzate in quella camera da letto riescono a fare di Paranormal Activity uno di quegli horror che, spudoratamente, offrono tutto non offrendo niente perché lasciano alla fantasia dello spettatore il lavoro di costruzione della paura. Per il resto il film è pieno di momenti di vita e quindi, per ciò che si è detto sopra, pieno di momenti morti o avvertiti come inutili, passati in attesa delle scene horror.


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Oren Peli non ha reinventato certamente l’horror con Paranormal Activity ma è innegabile che con pochi mezzi il film ottenga un risultato più che discreto, che inquieti più di molti altre ghost-story a budget più ampio e tecnicamente patinate, e che sottolinei, sempre che ce ne fosse bisogno, che il silenzio, l’attesa e l’immaginazione dello spettatore possono più degli effetti speciali e della violenza.

 

Detto questo, la cosa veramente paranormale di questa pellicola è il fatto che una coppia così giovane sia riuscita a comprarsi una villa enorme con piscina quando lui fa il programmatore. Morale del film: ho sbagliato lavoro.