Dopo il successo di Train de vie, con Il concerto il regista rumeno Mihaileanu mette ancora in scena la lotta del caos scanzonato della vita contro il sistema conformista dellideologia. Gli sbrindellati protagonisti si confrontano con un male che ha il rigido volto della burocrazia e avvelena luomo con lansia mortifera di evitare limprevisto, di fare in modo che nulla accada.

La vicenda storica del direttore dorchestra Evgenij Svetlanov, umiliato pubblicamente da Breznev nel 1979, rinasce nella figura di Andrej Filippov, leggenda vivente del Bolshoi, degradato a bidello per non aver rinunciato ai suoi musicisti, ebrei dissidenti.

Un Giusto che ammette però di aver agito egoisticamente, poiché senza la violinista ebrea Lea non avrebbe potuto perseguire il sogno dellarmonia perfetta. Tutto comincia quando il grigio burocrate Gavrilov interrompe bruscamente il Concerto 35 di Tchaikovsky, cui Andrej e Lea avevano affidato la loro realizzazione artistica, e precipita lorchestra nella miseria più nera.

Trentanni dopo i musicisti vivono di espedienti, svenduti ormai strumenti e aspirazioni. Filippov intercetta però un invito del teatro Chatelet di Parigi indirizzato alla nuova mediocre orchestra del Bolshoi. Nasce così lidea folle di radunare i musicisti dispersi e suonare a Parigi in vece dellorchestra ufficiale. Come impresario viene scelto ironia della sorte – proprio Gavrilov, invecchiato e nostalgico uomo di partito che, reo dell’antica umiliazione, avrà così occasione di redimersi.

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Sull’ambulanza guidata dall’amico Sasha, Andrej si lancia in una caccia rocambolesca per le vie di Mosca, tra mercatini, musei e peep show, un rincorrersi di gag e spaccati di vita vera. Radunata l’orchestra, Filippov convoca come primo violino la francese Anne Marie (Melanie Laurent, già ebrea vittoriosa in Bastardi senza gloria), magnetica trentenne di cui custodisce i successi in una scatola di scarpe. Capiamo subito che non é feticismo ma eco di un passato lontano e tormentato. I misteriosi rapporti tra Andrej, Anne Marie e la defunta Lea sono infatti la linea narrativa portante, un giallo efficacemente disvelato poco a poco, con discrezione.

Un violino tzigano introduce chiasso e illegalità e, atterrati a Parigi, i cinquanta elementi sembrano rom appena sfollati da un campo. Di fronte all’avidità e al temperamento slavo dei musicisti la sorte del concerto appare da subito appesa a un filo. Ma nel potente finale, il Concerto 35 di Tchaikovsky sorge dalla confusione come un miracolo, una cornice da brivido per il disvelarsi della verità su Anne Marie e lo sciogliersi di tutte le miserie umane nella bellezza.

L’homo sovieticus Gavrilov dimentica l’utopia («Proletari di tutto il mondo unitevi gli uni contro gli altri», come ironizza Filippov) e si abbandona alla grandezza di ciò che accade. «Non l’avrei mai immaginato eppure esisti» sussurra al Dio che aveva sostituito. E il trombettista, prototipo dell’ebreo ortodosso avido ma fedele, conclude il concerto con un «Amin».

 

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Sullo sfondo una Russia che ha perso ogni fede, dove qualsiasi cosa, persino la partecipazione a una manifestazione o a un matrimonio, si fa per denaro. Un doppiaggio esotico e parodistico esaspera la tendenza al clichè, ma lo spaccato della nuova Rus’ é tristemente realistico. Parvenue con ville placcate in oro e velleità artistiche, vecchiette ridotte a doppiare porno, matrimoni atrocemente infestati di cuori gonfiabili.

Si fotografa la strage delle menti e dei cuori perpetrata dal Regime, e quel nucleo vitale e assetato che pure sopravvive. Qualcosa di irriducibile che dentro ciascun abitante del defunto impero ha fame di grandezza e felicità. Mihaileanu propone il disordine menzognero della vita contro la precisione chirurgica e ottusa del male. Ma é ancora attuale questa ricetta? Il male ha ancora le fattezze pesanti e inflessibili del Sistema?

  

Questo inno al caos non é forse poi tanto rivoluzionario nella nostra Modernità Liquida e la ricetta del regista é incompleta rispetto alle sfide che ci aspettano. Proprio quest’incompletezza però, tragicomico ingrediente della cultura yiddish, regala al film levità e apre alla speranza.