Intorno alle 13 padre e figlio stavano giocando insieme a un videogioco calcistico. Dopo un diverbio sulle modalità di gioco, il ragazzo ha apostrofato il padre in malo modo. E stato allora che il genitore ha deciso di por fine al gioco, staccando bruscamente la spina di alimentazione…

La reazione del giovane è stata però ancor più imprevedibile: si è diretto verso la cucina, dove ha preso un coltello da carne con una lama lunga 40 centimetri. Poi ha raggiunto il padre, che nel frattempo si era seduto sul divano in salotto, e gli ha sferrato un fendente alla gola, quasi sgozzandolo. Dopodichè è andato a lavare il coltello sporco, abbandonandolo sullo scolapiatti, e si è andato a chiudere nella sua camera.

Questo il resoconto di cronaca di quanto successo a Torino poco tempo fa. Non può non colpire la scarsità delle analisi apparse sui mass media nei giorni successivi, quasi ci si sia abituati ad eventi del genere. Solo sui blog si è riacceso il dibattito sulla pericolosità o sullinnocenza dei videogiochi. Ma mentre specialisti e addicted discutono, centinaia di milioni di persone giocano, più o meno coscienti di quello che stanno facendo.

Il mercato globale, tra hardware e software vale circa 20 miliardi di dollari. Quello italiano vale circa 1 miliardo e 300 milioni di euro, in larga parte appannaggio dei giochi per ragazzi e per famiglia, legati soprattutto alla diffusione di consolle che permettono giochi di abilità che simulano gli sport e la musica.

 

Secondo una convenzione internazionale, i giochi vengono ritenuti adatti a determinate fasce di età in base alle indicazioni “PEGI”. Con questo acronimo viene indicato il “Pan European Game Information”, una sorta di codice di autodisciplina cui la Comunità Europea tiene molto, le cui classificazioni sono riportate sul fronte e sul retro delle confezioni e indicano una delle seguenti età: 3, 7, 12, 16 e 18 anni, e dovrebbero rappresentare “un’indicazione affidabile sull’adeguatezza del contenuto del gioco in termini di protezione dei minori”. Vediamo cosa recita ad esempio il PEGI 3+ : “Il contenuto dei giochi a cui è assegnata questa classificazione è ritenuto adatto a tutti i gruppi di età.

 

Essi possono contenere violenza se inserita in un contesto comico (…come quelle dei cartoni animati). Il bambino non deve associare i personaggi presenti sullo schermo a personaggi della vita reale; essi devono essere totalmente di fantasia. Il gioco non deve contenere rumori o immagini che possano spaventare o impaurire i bambini piccoli. Non devono essere presenti espressioni volgari né scene di nudo o riferimenti ad attività sessuali”.

 

Del tutto casualmente, in un negozio di informatica ho visto dei ragazzini che stavano provando un videogioco con una gara di “supercar”, marcato PEGI 3+. Azione dichiaratamente iperbolica, supercar esagerate… ma il principale ambiente in cui si svolgono le gare è una città molto realistica, con le auto, gli autobus, le vetrine dei negozi, le villette, i parchi. E la voce guida ti incita a “distruggere più che puoi”. Ti ricorda che non hai distrutto abbastanza (alberi, autobus, semafori, vetrine), che “devi distruggere di più se vuoi raccogliere punti…”

 

Non so se siamo in presenza di una svista degli estensori del PEGI: sta di fatto che per quanto virtuale e iperbolica, la violenza distruttiva pervade completamente questo gioco apparentemente innocente…Che si dovrebbe dire allora di Grand Theft Auto, il videogioco tra i più discussi, vietati – in alcuni paesi – e venduti a causa delle sue straordinarie performance (accompagnate anche da una notevole esaltazione della criminalità)?

 

Nulla di più di quanto già detto dai blogger più responsabili: Grand Theft Auto è un gioco che PEGI riserva ai 18+. Se ci giocano i ragazzini la responsabilità sarà ben di qualcun altro. E qui veniamo al punto cruciale, che è sempre il solito: la responsabilità della famiglia. Una associazione americana (Mediawise) che si occupa del rapporto tra violenza e mass media, ha diffuso tempo fa uno spot sociale molto azzeccato: si vede una giovane madre americana intenta ad ascoltare la radio mentre cucina. Non si accorge che dalla porta aperta della camera del figlio si vedono scene di sadica violenza tratte da un videogioco ma ingrandite al naturale, come se fosse il figlio ne fosse il protagonista. Lo slogan recita: “ Sai quello che tuo figlio si porta a casa? Tu no, ma lui lo sa…”.

 

 

Lo spot va dritto al nodo della questione: stai abdicando all’educazione di tuo figlio lasciando a tv e videogiochi il compito di influenzarlo acriticamente? Alcuni psichiatri di scuola inglese sono convinti che i videogiochi violenti servano semplicemente a scaricare le tensioni. Mentre altri, di scuola americana, sono convinti che invece contribuiscano in maniera significativa ad accrescere l’aggressività dei minori.

 

Mi domando se c’è bisogno di essere laureati in psichiatria per capire che l’educazione è innanzitutto un fatto di mimesi: qualsiasi cucciolo impara per imitazione, che sia un ghepardo avviato alla caccia dalla mamma o un bimbo cui si insegna a distinguere prima i colori e poi magari il bene dal male. Il problema non è quindi cosa vede o cosa non vede, ma le riflessioni che viene invitato a fare su cosa vede, il che ha a che fare con l’educazione al senso critico. Per cui è inevitabile che la reiterata e acritica esposizione ad ammazzamenti senza pietà –ancorchè virtuali – non può non avere effetti, magari a molti anni di distanza.

 

E infatti, quello che colpisce della vicenda di Torino è la lucida freddezza con cui il ragazzo ha sgozzato il padre, come se stesse vivendo in un videogioco virtuale. Il momento ludico è un momento fondamentale per apprendere più facilmente: lo dimostrano le scuole di musica che la insegnano ai bambini facendoli giocare. Come si può pensare che la violenza insegnata con analoga tecnica non possa produrre effetti pericolosi?

 

La morale è che i bimbi che avranno giocato a tempo debito con i giochi adatti accompagnati da un genitore, da grandi potranno anche giocare senza problemi anche con Grand Theft Auto perché avranno imparato a distinguere al momento opportuno il bene dal male. Senza tentare di sgozzare il padre al primo diverbio…