Fantasmi e orrori del passato rivivono nel presente in una dimensione che trasforma i sogni in incubi. il 1954 e siamo nel mezzo dellOceano a largo di Boston, a Shutter Island, dove da un penitenziario per criminali pazzi è scappata una detenuta colpevole di aver ucciso i suoi tre bambini. Scomparsa, svanita nel nulla di celle in cui i minuti non hanno valore. Qui conta solo la guarigione. Ammesso che sia possibile. Perché, come si domanda lagente federale Teddy Daniels (Leonardo Di Caprio), giunto sin qui con il suo socio per indagare sullaccaduto, è meglio vivere da criminali o morire da uomini per bene?

Una domanda che spiazza, che ribalta completamente le certezze di per sé già piuttosto deboli – conquistate dopo 138 minuti di film. Già solo per questo la pellicola merita di essere vista. Scorsese, inoltre, è bravo nel costruire la trama, semplice, ma pronta a complicarsi nella sovrapposizione tra la realtà vera e quella immaginata. Molto preciso, il regista, nel far sì che tutti i sempre più complessi elementi dellintreccio alla fine della storia abbiano un significato.

Nulla si perde, ma tutto si spiega. Sublime nel farci credere fino in fondo a quanto vediamo. Non cè un secondo nel film in cui sorga un dubbio sulla veridicità di quello che scorre sullo schermo. Solo alla fine le proprie certezze crollano. Altrettanto impeccabile, Scorsese, nel creare tensione ed alimentarla sino alla fine attraverso il ritmo, incessante, che insieme alla trama – una vera lotta verso la salvezza corsa nel labirinto del penitenziario – ci tiene con il fiato sospeso.

Un intreccio che non lascia tregua, ogni scena è la conferma di quella precedente ma allo stesso tempo ne è anche unatroce smentita. A chi credere? Al direttore dellIstituto, allagente Daniels o ai pazzi che lui interroga per scoprire come è scappata la detenuta Rachel?

 

Quello che conta in questo film, però, non è la storia, che diventa quasi un fattore secondario. Ciò che lascia il segno sono le sensazioni che si “sudano” tra le pareti umide e malate del penitenziario, le emozioni che si provano e il brivido, non di paura ma di stupore. C’è una forte tensione emotiva che spiazza e che si alimenta non solo attraverso la dimensione allucinata in cui vive il nostro protagonista, ma anche grazie all’ottima interpretazione di Di Caprio, bravissimo nel far materializzare i suoi sogni peggiori, vero nell’interpretare la malattia, sincero nel farci immedesimare nel suo stato mentale.

 

Il passato torna nel presente, si sovrappone ad esso nei nomi e nelle storie, creando uno stato di confusione che invece si traveste di finta lucidità. Il suo sguardo perso nel vuoto e colmo di rabbiosa paura diventa il nostro. Così come il suo bisogno di liberarsi dal passato “espiando” le proprie colpe.

 

I corpi inermi di Dachau riaffiorano nella sua mente, anche se sono solo una parte del senso di colpa che gli impedisce di vivere il reale presente. E’ per questo che Daniels ne crea uno tutto suo, uno spazio e un tempo nel quale compiere il suo dovere di uomo e di agente federale, un luogo dove ristabilire il giusto ordine della vita e dove acqua e fuoco sono emblema della stessa fine. L’acqua, che nell’iconologia classica è fonte di vita, qui diventa simbolo di morte, oltre ad alimentare le paure più profonde – fisiche e psichiche – di Daniels.

 

Così ci troviamo in balia del mal di mare, di un uragano, dell’umidità del penitenziario che entra nelle ossa e non ne esce più, di un lago che uccide chi è innocente. C’è anche il fuoco, che brucia e trasforma tutto in cenere. È il male che si porta dentro Daniels, colpevole solo di non essere arrivato in tempo.