Avevo da poco compiuto 8 anni quando l’11 febbraio del 1990 Nelson Mandela riconquistava la libertà dopo 27 anni di prigionia. Non ricordo levento, solo il suo nome che, dal nulla, aveva cominciato a risuonare dalla bocca di tutti. Mandela – Apartheid, un binomio che rilessi, più grande, sui libri di scuola. Parole, nero su bianco, per tentare di spiegare con logica che cosa fosse il regime razzista che fino a poco tempo addietro vedeva neri e bianchi divisi nella stessa terra, dalla stessa terra.

Esattamente 20 anni dopo, in un sabato sera qualunque, una sala cinematografica di periferia è gremita di gente comune. Tra tutti, però, spiccano due file: una, occupata da unintera classe di scuola superiore; laltra, che porta la maglia di una squadra di rugby. Età media: 15 anni.
questa la meraviglia del cinema di Clint Eastwood, che si fa sempre più grande. Unire nel racconto di fronte allo schermo, regalare una finestra sul mondo, come già aveva fatto stupendamente in Gran Torino. A cominciare da una fotografia che non è perfetta, ma leggermente sgranata e che conferisce un forte senso di realismo alle immagini che scorrono.

Eastwood è il Nuovo Cinema degli anni 2000, lontano dai sensazionalismi abbaglianti in 3D di Avatar, che certamente rappresenta un notevole passo in avanti nella tecnologia cinematografica, ma di fatto nasconde una storia banale e retorica. proprio questa la parola assente nel vocabolario clintiano. Nessun altro regista avrebbe potuto raccontare Mandela e lApartheid. Ovvero, chiunque avrebbe potuto farlo, ma certamente sarebbe stato in maniera banale, non come Eastwood, non con il suo stile.

Perché è facile descrivere un personaggio che ha lottato per la libertà, che è vissuto in carcere per 27 anni, che è stato liberato solo per lintervento di organismi internazionali, che è diventato il primo Presidente nero del Sud Africa e che ha vinto il Nobel per la pace, oltre a molti altri riconoscimenti. La storia è già scritta, non cè nulla da inventare. Tutti gli altri avrebbero usato lenfasi retorica del combattente, schierandosi di fianco a Mandela con il pugno alzato. Non lo fa Clint Eastwood, che racconta la fine dellApartheid senza fragore, quasi sottovoce, con il suo stile. Lo stile delle piccole cose, delle piccole azioni. Lo stile di chi si ferma a guardare con attenzione e nellinsieme del molto sceglie il particolare che rende unica quella determinata circostanza.

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È anche per questo che Eastwood è l’unico che avrebbe potuto mettere su pellicola Mandela: perché loro due sono uguali. Due uomini silenziosi, due grandi osservatori, lungi dal voler suscitare clamore, un compiaciuto sorriso di gioia nel vedere i buoni frutti di un lavoro compiuto nel silenzio, nell’umiltà. Così il regista, traendo anche ispirazione dal libro Playing The Enemy, di John Carlin, sceglie un singolo episodio, una partita di rugby.

Le restituisce il significato che ebbe allora e che forse è stato dimenticato, facendo gravitare attorno ad essa il valore del perdono e della comprensione come presupposti per la nascita di una Nazione, o meglio, di un Popolo, i Sud Africani. Bianchi e Neri insieme. Così in Invictus – L’invincibile, il Campionato del Mondo di Rugby diventa anello di congiunzione tra il passato e il futuro. Non basta che l’Apartheid sia finito. Bisogna che i fatti lo dimostrino, che bianchi e neri si stringano la mano non solo formalmente, ma con spontaneità, poiché questo è l’ordine naturale del mondo.

È in questo che Clint Eastwood interpreta Mandela, cogliendone la lungimiranza di vedere in un macth sportivo l’occasione civile e politica per trovare il minimo comune denominatore tra gente della stessa terra. Ci vogliono delle regole per creare una Nazione. Non più quelle razziste del vecchio ordine. Regole nuove, che gridano a una sola voce la parola perdono. È questo che significa la scena in cui gli Springboks, la Nazionale di Rugby del Sud Africa fino ad allora non riconosciuta dalla popolazione nera, scende in un campo di periferia tra bidonville e insegna le regole del loro gioco a bambini neri.

Gli Springboks, fino ad allora collezionisti di grosse delusioni sul campo, hanno bisogno di energia per affrontare e vincere i Campionati del Mondo. I bambini neri hanno bisogno di credere che smetteranno di vivere emarginati. E Eastwood fa la magia. Si, perché il regista, nel modo in cui racconta i fatti, sottolinea che affinché si realizzino i frutti del perdono, bisogna essere in due. Nel 1995 gli Springboks non sarebbero diventati Campioni del Mondo se Mandela, nel suo piano di trasformare il Campionato in un’occasione per far gioire della stessa vittoria bianchi e neri, non avesse incontrato François Pienaar, Capitano della squadra.

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Il perdono è fatto di comprensione. È per questo che Pienaar organizza per la sua squadra una gita sull’isola che fu la prigione del Presidente. Perché ha bisogno di capire e far capire ai suoi compagni la sincerità delle intenzioni di Mandela, un uomo chiuso in una cella minuscola per 27 anni, condannato ai lavori forzati a vita, e ora pronto a perdonare chi gli ha fatto questo. E’ per questo che gli Springbok devono vincere.

Forse il caso o forse l’attenzione di Eastwood sottolineano il valore metaforico che assume un evento sportivo come germe di un popolo, e che tale sport sia il rugby. Una disciplina per duri, in cui si esce dal campo ricoperti di graffi ed ematomi, ma nel sudore, nella fatica e nelle botte è uno sport, paradossalmente, molto corretto, con regole ferree. È così che il popolo Sudafricano nasce, dalla sua stessa terra.

Si può essere certi nel dire che i protagonisti di questa pellicola siano tre: Mandela, François Pienaar e il rugby. E Clint Eastwood? Sta nascosto dietro la macchina da presa, come quando nel cinema classico i movimenti di macchina erano così fluidi e invisibili da essere il naturale prolungamento della vista umana. Eastwood c’è nel suo non essere invadente. C’è nello sguardo trasparente con cui racconta la storia. C’è, soprattutto, nell’aver colto in un “piccolo” evento il vero significato di un grande uomo.