Dopo lo sfavillante Spider-man firmato da Sam Raimi, la notizia che un autore come Ang Lee si sarebbe messo al lavoro su un adattamento del fumetto Marvel Hulk venne accolta come la definitiva conquista del postmodernismo, dove la cultura bassa diventava un tutt’uno con la cultura alta. Ma forse riproducendo l’impossibile convivenza tra Bruce Banner e il suo alter ego verde brillante Hulk, alla sua uscita il film di Ang Lee suscitò un solo parere unanime: noia.
Lo dicevamo all’inizio: si era da poco reduci dalla visione della versione di Sam Raimi dell’Uomo Ragno, capolavoro del cine-fumetto perchè capace di mantenere l’approccio leggero e divertente pur senza snaturare il personaggio di Peter Parker, studente sfigato con un grande potere e delle grandi responsabilità. Ma Bruce Banner/Hulk non ha la forza empatica di Peter Parker, né il fascino da gentiluomo di Tony Stark/Iron man, per non parlare poi dell’oscurità che si muove dietro gli occhi di Bruce Wayne/Batman. Bruce Banner è un uomo freddo, lontano dalle sue emozioni, da se stesso, tant’è che la fidanzata (e collega) lo lascia proprio per la sua incapacità di far trasparire i suoi sentimenti, incapacità empatica anche nei confronti del pubblico che, purtroppo, non premiò il film, così come la critica, che lo stroncò senza rimorsi.
Forse non era ancora il momento di Hulk e di un cine-fumetto che, se da un lato cerca di recuperare visivamente le suggestione della vignettatura, dall’altra elimina totalmente i toni colorati e action (del fumetto) e le derive trash (della serie televisiva), costruendo il personaggio in bilico tra la tragedia greca, il dramma shakespeariano e una profonda analisi psicologica. Il risultato è un film introspettivo, un viaggio nel corpo e nella mente di un uomo (e la cosa è ribadita anche nella regia che sovente si introduce proprio nel corpo di Banner, tra sangue, globuli e DNA), nei suoi ricordi cancellati e nella rivelazione improvvisa e violenta di un lato nascosto della sua personalità.
“Hulk” è al contempo la scoperta di un uomo delle sue paure, della sua rabbia, della sua forza (della parte più profonda di sé, sembra il caso di dire), e la presa di coscienza di una convivenza impossibile tra la razionalità della sua mente e l’inarrestabile irrazionalità del suo corpo. È un film atipico quello di Ang Lee che, pur non lesinando le scene action (il bestione verde appare per appena 40 minuti su 120 di pellicola), si concentra soprattutto sulla vicenda personale (e interiore) dello scienziato Banner. La macchina da presa ha un compito quasi psicanalitico di disvelamento della personalità tant’è che, in questa ottica, l’insistito split screen utilizzato da Lee non è solo la rappresentazione filmica della pagina di un fumetto, ma il tentativo grafico di guardare quasi con ossessione gli avvenimenti da un altro punto di vista, da un’altra angolazione.
Snobbato dalla critica e poco fortunato al botteghino, l’ “Hulk” di Ang Lee rivisto oggi, risulta essere un film supereroistico dal respiro moderno, la storia sofferta di un non-eroe sofferente che non conquista empaticamente il suo pubblico, ma lo travolge nella tragedia della sua instabile vita.
Forse nel 2003 non eravamo pronti ad accoglierlo. Oggi lo siamo sicuramente di più.