Iniziato sotto l’egida della qualità, il nuovo lavoro del regista Renè Ferretti (Medical dimension, spin-off politically uncorrect della soap Gli occhi del cuore) si scopre essere piano piano una trappola della rete per far affossare definitivamente nella critica e negli spettatori l’idea che una fiction di qualità in Italia sia possibile. Il buon Ferretti allora riprende in mano le redini del progetto e trasforma il raffinato medical-drama nella terza serie della soap che lo ha reso celebre.



Boris 3 è stato criticato da molti. Arrivata alla sua terza stagione, la serie italiana che in rete è diventata un vero culto (ma che fatica a palesarsi nella tv generalista) ha ricevuto parecchie stoccate da chi l’ha trovata meno divertente, meno incisiva, meno qualcosa. Forse la serie non ha raggiunto ancora la sua perfezione, forse qualche incidente sul difficile percorso dell’originalità effettivamente c’è stato, forse, ma Boris 3 stupisce nuovamente per la sua capacità di leggere, criticare e ironizzare sulla fiction italiana e, di conseguenza, anche sul suo pubblico e sulla società italiana.



Per approfondire il tema, gli sceneggiatori della serie hanno spostato l’attenzione dall’impacciato stagista Alessandro, a Renè Ferretti, regista talentuoso catturato dalle spire della banalità televisiva da cui non riesce a liberarsi. Boris 3 è tutto di Renè, tutto sulla sua storia e sulla sua vicenda professionale che diventa modello per riflettere sui meccanismi televisivi.

Gli altri personaggi non sono però oscurati e riescono a ritagliarsi i loro spazi, dal divo italiano (ma che vuole essere americano) Stanis LaRochelle, alla umile Fabiana, figlia di Renè e attrice di talento sottovalutata dalla produzione, per non dimenticarsi poi dell’impossibile storia d’amore tra Alessandro (lo stagista) e Arianna (l’aiuto regista) che, partendo dal conflitto su Berlusconi (i due si scoprono di opposte fazioni politiche), si risolve in maniera originale e autentica.



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 Un ottimo lavoro di scrittura, supportato in modo ineccepibile dalle interpretazioni, dove il capocomico Francesco Pannofino tira i fili di un cast pressoché perfetto, su cui spiccano il Biascica di Paolo Calabresi, lo spietato Lopez interpretato da Antonio Catania e soprattutto il trio di sceneggiatori che in questa serie escono dall’ombra e, diventando protagonisti attivi, danno la possibilità agli sceneggiatori di Boris 3 (stavolta veri però) di prendere la mira in maniera più precisa per tirare la stoccata finale alla sempliciotta e banale fiction italiana.

«Questa è l’Italia del futuro: un paese di musichette mentre fuori c’è la Morte!», come dice uno degli sceneggiatori nel monologo della puntata finale. E la stoccata arriva insospettabile anche alla tanto osannata serie televisiva di casa Rai Tutti pazzi per amore che, sempre per dirla alla Boris, rappresenta «il peggior conservatorismo che si tinge di simpatia, di colori, di paillettes». Quella che da molti è considerata la punta di diamante della fiction italiana della tv generalista, è smontata in un monologo tanto geniale e sopra le righe quanto triste e reale, che ci convince ora più che mai che una fiction diversa in Italia non sarà mai possibile perché in fondo il pubblico, non vuole qualcosa di diverso, vuole qualcosa di normale (ma con un poco di “locura”).

Eppure c’è Boris, che è un attimo di respiro nel mondo affannato e affannoso delle serie televisive nostrane, che sembra farci sperare almeno per qualche attimo che qualcosa di diverso in Italia si possa fare, che esista ancora qualche spettatore che non ingurgita senza guardare nel piatto, ma pretende che il cibo che gli viene dato sia di alta qualità (vera).