Iron Man 2, come tutti i film che recentemente Marvel ha realizzato, è una pellicola che mantiene quello che promette. Spettacolo, divertimento leggero accessibile a tutti e – forse soprattutto – che ha grande rispetto per gli appassionati dei fumetti. Sia perché ormai gli eroi dellimmaginario che prendono forma sullo schermo sono esattamente come li abbiamo sempre immaginati, sia perché nei film abbondano ammiccamenti e allusioni a crossover di personaggi vecchie e nuovi, riferimenti a pellicole ancora da girare e dettagli che tanto fanno sentire a casa gli appassionati (BadTaste.it ne ha anticipati e ipotizzati molti, tra cui lindizio secondo cui in futuro vedremo il debutto sul grande schermo anche di Namor, un altro personaggio amatissimo della Marvel in un colossal definito una Star Wars sotto il mare).
Impressionanti gli effetti speciali, sia quelli visivi che quelli sonori (che dire del rumore metallico che accompagna costantemente Iron Man? O del ronzio dei motori elettrici che ne segue i movimenti? O degli schiocchi dei lampi elettrici? Magnifici) da videoclip la colonna sonora, capitanata dagli Ac/Dc. Tutto molto bello, quindi, e la missione di ripagarsi il biglietto del cinema si è conclusa con successo.
Eppure una vocina mi dice che qualcosa in Iron Man 2, il film campione di incassi, proprio non va e non decolla. Appena fuori dalla sala mi è tornato in mente, prepotentemente, Rocky III. Sì, proprio il film con Sylvester Stallone e Mr.T (a proposito, nel film sullA-Team lui non ci sarà), quello in cui Rocky, ormai ricco e appagato e senza più i mitici occhi di tigre viene suonato come una zampogna dal Clubber Lang, pugile di colore con una fame di vittoria tale da sopportare qualsiasi sacrificio.
In tutto lintreccio di trame e sottotrame di Iron Man 2, per la verità tipiche del mondo dei fumetti e ben rese nel film di Jon Favreau, che qualche commentatore più o meno autorevole ha definito zeppo di tutto, più di tutte le rivalità e vicende che animano la storia, questa è la cosa che mi ha colpito di più.
Tony Stark è sì un eroe, unicona della civiltà occidentale ed evoluta, ma è anche un simbolo decadente del borghesismo che rimane vittima di se stesso (come metaforicamente sottolinea anche il fatto che il cuore al palladio che gli conferisce la forza che gli altri non hanno, è anche ciò che lo sta uccidendo). Stark non ha più gli occhi di tigre, è solo un borioso personaggio annoiato di se stesso, timoroso della vita e schiavo delle sue ricchezze e del suo potere.
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Lo “schiaffone” che lo riporterà sulla terra è proprio lo scontro con Ivan Vanko, interpretato stupendamente da Mikey Rourke. La via d’uscita, come per Rocky Balboa, è – almeno nelle intenzioni – nella scoperta da parte di Stark delle sue origini e dei suoi affetti, che gli daranno la forza e la conoscenza necessaria per superare il suo avversario.
Tuttavia, continuava a insistere la mia “vocina”, purtroppo c’è qualcosa di profondamente diverso in questo film. Rocky mette al tappeto Iron Man per almeno due motivi. Primo. Iron Man non esce dal suo borghesismo. Si rimette in sella a quella vita che in realtà rimane la stessa, riparata dai soldi e da quelle ironie che sono il contrario di una evoluzione personale. Manca una vera frattura con il passato, che il regista ci lascia intravedere in un eventuale terzo capitolo.
Il secondo, e più importante, è che qui manca totalmente la figura di Adriana. Intendiamoci, un film con Gwyneth Paltrow in versione imbranata&innamorata e Scarlett Johansson fascinosa&letale lo vorrei vedere una volta alla settimana. Non si tratta della presenza femminile, ma di quella presenza femminile che è il vero trait d’union di un uomo con le sue origini e i suoi ideali. Non ho resistito e ho rivisto la scena del dialogo in riva al mare tra Rocky e Adriana in Rocky III almeno dieci volte. Così la vocina si è acquietata.
Questo mi pare l’unico errore del film, che però riduce Iron Man a un uomo di plastica. Non certo d’acciaio come un pugile borghese che, anche grazie a sua moglie, mette davvero al tappeto il suo avversario.
(Gian Maria Corbetta)