Alla fine il cinema dAutore ha riagguantato la sua Palma. Per la critica, Cannes 2010 era già bollata come unedizione da dimenticare, povera di ispirazione, appiattita su un realismo sciatto, colpevole di aver dato troppo spazio a blockbuster già usciti nelle sale. Ma poi (o forse proprio per questo) la visionarietà e il simbolismo hanno trionfato al quadrato, nella storia di un uomo che, in fin di vita, si intrattiene con il fantasma della moglie e con il figlio trasformatosi in scimmione.
Sicuramente il fresco vincitore della Palma DOro, il thailandese Uncle Boonmee, è un film che, per temi e stile, non punta alle masse; che poi cinema di qualità significhi necessariamente visione faticosa e buchi logici, resta tutto da dimostrare. Comunque una cosa è certa: noi, comuni spettatori, siamo pronti a lasciarci alle spalle il trito dualismo Festival/Mercato, cinema dautore/blockbuster, troppo rigido per rispecchiare la realtà del cinema contemporaneo e soprattutto le aspirazioni del pubblico.
Ne parliamo con Armando Fumagalli, ordinario di Semiotica ed Etica della Comunicazione allUniversità Cattolica di Milano, studioso di fama internazionale di cinema e televisione e formatore di giovani generazioni di sceneggiatori. Dal suo Master in Scrittura e Produzione per la Fiction e il Cinema presso lAteneo milanese, in dieci anni sono uscite molte firme dei prodotti migliori della fiction italiana, e recentemente anche nuovi volti della narrativa contemporanea.
Un commento a caldo sul verdetto di Cannes.
Non ho ancora visto il film vincitore, ma avrò senz’altro piacere di vederlo. Credo che in questa vittoria, che premia l’anti-realismo e la visionarietà, abbia senz’altro pesato la presidenza di Tim Burton. Staremo a vedere, adesso, se il film riuscirà a circolare nelle sale e a conquistare il pubblico. Sono molto contento del premio al nostro Elio Germano: è un attore molto bravo ed eclettico.
Come esce il cinema italiano da questo festival?
Da diversi anni il cinema italiano non riesce più a imporsi a livello internazionale. I pochissimi film italiani che sono stati davvero conosciuti all’estero si contano sulle dita di una mano: se si parla, per es., con un americano colto, che conosce il cinema internazionale, normalmente sa citare solo tre titoli: Nuovo Cinema Paradiso, Il postino, La vita è bella.
L’esultanza di un paio d’anni fa per i risultati (premi importanti, ma comunque collaterali) per Gomorra e Il divo a me è sembrata esagerata. Devo dire che in entrambi i casi, fra l’altro, si trattava di film molto freddi (in Gomorra i personaggi sono trattati con la freddezza di un entomologo) che magari sono anche stati venduti all’estero, ma da nessuna parte hanno avuto un vero successo; anche in Italia, a dispetto degli incassi più che buoni, non mi sembra che Gomorra sia stato veramente amato. Il cinema italiano, soprattutto quello di autore, tende ad essere molto freddo, a non coinvolgere con le emozioni.
In questo modo lascia tutto il mercato libero alle commedie, che a mio parere hanno successo non per la loro volgarità, ma nonostante la loro volgarità. Prova ne è che quando Aldo, Giovanni e Giacomo hanno fatto bei film non volgari, hanno incassato più del “Natale” di turno, che di solito ha il record di incassi fra le commedie volgarotte. Un film come Billy Elliot, per esempio, che produttivamente sarebbe possibilissimo in Italia, non viene fatto anche perché il cinema italiano non ha risolto questo problema di rapporto con le emozioni del racconto, e anche, per es., con l’happy end che il cinema d’autore vede sempre con sospetto.
In che misura un Festival rispecchia lo stato reale del cinema e del pubblico di un Paese?
Un festival è sempre in amplissima parte espressione della sensibilità dei selezionatori e della “nicchia” che il Festival stesso si è ritagliato all’interno del vastissimo mondo della produzione cinematografica. Ci sono film bellissimi e importantissimi che non passeranno mai da un festival, perché non sono adatti per quel pubblico. Le cose però possono cambiare e forse in una certa misura stanno cambiando.
Mi ha sorpreso positivamente, per es., che quest’ultimo anno a Venezia fosse ospitato Up: un film della Pixar era impensabile in un festival del genere fino a pochi anni fa. Stessa sorpresa positiva per la presenza a Cannes di Des hommes et des Dieux, il film sui monaci francesi uccisi in Algeria, che spero di veder arrivare presto in Italia.
In Italia la frattura tra critica e pubblico è ancora profonda o ci sono segnali di avvicinamento? Esiste una “terza via” tra cinema d’autore e cinepanettone?
Una “terza via” ci sarebbe, ma è ancora poco frequentata. Casi molto interessanti e positivi sono a mio parere i film di Ficarra e Picone come Il 7 e l’8 e anche La matassa, che in qualche modo si avvicinano alle prove migliori di Aldo, Giovanni e Giacomo (penso in particolare a Chiedimi se sono felice, che considero un gran bel film). Si tratta di opere divertenti, non volgari, che si rivolgono a un pubblico medio e che sanno coinvolgere raccontando storie che promuovono valori come l’amicizia, la lealtà, il perdono. Sono film assai lontani –per es.- dalla visione catastrofista della famiglia che ha molto cinema d’autore. Un suo fondo di genuinità (in questo simile al Pieraccioni del Ciclone) l’ha avuto anche Cado dalle nubi.
Ora occorrerà vedere se nei suoi prossimi lavori Checco Zalone (qui assai ben indirizzato dal regista e sceneggiatore Gennaro Nunziante) manterrà questo candore di fondo, cosa che gli auguriamo, ovviamente, o se invece deriverà verso la comicità becera.
Come può il cinema italiano tornare ad essere “popolare” e nel contempo di qualità?
Credo che la strada da seguire sia quella intrapresa da film come Le vite degli altri (che viene dalla Germania) o film francesi come Il concerto (l’autore è di origine rumena), Giù al nord, Les choristes. Si tratta in tutti i casi di film che hanno avuto un notevolissimo incasso, anzitutto in Patria, ma poi sono andati molto bene anche all’estero, e che hanno proposto storie coinvolgenti, emozionanti e anche ricche di valori, a volte in modo positivamente semplice, come in Giù al nord, a volte in modo molto raffinato, ma non per questo astruso, come in Le vite degli altri. Inoltre c’è da notare, per es., che in Italia non si fanno film “family”, mentre di nuovo la Francia ha dato segnali molto interessanti come Le petit Nicholas.
Sono fra gli organizzatori del Fiuggi Family Festival e questo tema lo sento molto: abbiamo infatti una certa ampiezza di offerte di film da tutto il mondo, ma ancora non siamo riusciti, in tre anni, ad avere un film italiano che fosse veramente family. Ma questo è proprio uno dei motivi principali per cui abbiamo deciso di dar vita al Festival…: richiamare l’attenzione del mondo produttivo italiano che segue solo i suoi gusti e le sue sensibilità e molto meno quelle del pubblico.
Vede una strada per arrivare a colmare questo gap?
La strada sarà senz’altro lunga e personalmente mi sono impegnato da una decina d’anni a percorrerne una che potrebbe sembrare lunghissima, ma sono sicuro che alla fine sarà quella più breve, perché decisiva: formare persone –in concreto sceneggiatori e produttori- che abbiano un forte legame con la realtà e la voglia di portare aria nuova e sensibilità nuove nel mondo del cinema. Abbiamo dato vita nel 2000, all’Università Cattolica, a quello che oggi è il Master in Scrittura e produzione per la fiction e il cinema, che ha formato una bella generazione di giovani professionisti che poco a poco si stanno consolidando in diverse realtà produttive.
Quali sono le caratteristiche di questo Master?
L’idea di fondo era quella di attingere alle migliori esperienze del cinema hollywoodiano e della fiction italiana, per formare persone con un profilo internazionale: da sempre abbiamo un rapporto molto stretto con la Lux vide, che con i suoi prodotti come Don Matteo, Ho sposato uno sbirro, ma anche Guerra e pace, Enrico Mattei, Coco Chanel, e alcune delle migliori fiction religiose come Sant’Agostino, ha sempre curato l’approfondimento del racconto e il coinvolgimento dello spettatore, proponendogli valori in piena sintonia con la fede cristiana.
Ci siamo appoggiati molto su questa esperienza, ma devo anche dire che negli ultimi anni, proprio su prodotti come quelli citati, c’è stato un apporto decisivo di nostri ex-allievi, che hanno firmato queste fiction come sceneggiatori, produttori creativi, story editors.
Quest’anno il suo Master festeggia i dieci anni di attività. Qual è il bilancio?
Il bilancio è più che positivo, se non fossi amico dell’understatement direi entusiasmante. Credo che abbiamo mostrato come si possa formare, in modo pienamente rispettoso dei valori e delle nostre radici culturali cristiane e umanistiche, persone che si inseriscono in modo immediato ed efficace in un’industria competitiva e dura come quella del cinema e della televisione. Devo dire che su gran parte delle cose migliori fatte dalla televisione di oggi, hanno collaborato nostri ex-allievi, da miniserie di prima serata a cartoni animati (andati in onda anche in Germania o Inghilterra).
Idem per alcuni prodotti di aziende come Disney publishing. In questi mesi, poi, ho avuto la soddisfazione di veder decollare un ex-allievo che reputavo di grande talento, Alessandro D’Avenia, l’autore di Bianca come il latte rossa come il sangue (Mondadori), un romanzo a mio parere bellissimo, che sta avendo un meritato successo, e sta per essere pubblicato in una ventina di Paesi, dalla Russia all’Albania, dal Brasile a Taiwan. Dove dobbiamo ancora “decollare” è in ambito cinematografico: ma su questo fronte ci sono segnali molto positivi e credo che anche solo fra uno o due anni potrò elencare un buon numero di titoli e progetti in sviluppo scritti dai nostri allievi.
Ma è possibile “insegnare” la creatività?
La creatività può essere incanalata, educata, indirizzata. E’ certo che la cultura di base e il talento non possono essere dati in un corso come il nostro, che dura solo un anno. Ma noi cerchiamo di trovare giovani con una cultura molto solida, una personalità aperta e vivace e diamo a loro gli strumenti tecnici per ottimizzare la loro capacità di costruire racconti che appassionino: per il cinema e la tv, ma anche –indirettamente- per il romanzo, il fumetto, il documentario, ecc.
Insegniamo ad andare in profondità, a non essere astrusi, a lavorare su grandi temi e grandi emozioni (cosa assolutamente fondamentale in televisione). Naturalmente sono tutte capacità che poi vanno pazientemente sviluppate ed esercitate, a volte ci vogliono anni di maturazione, ma –per es.- la capacità di valutare se un prodotto funziona o no, quella quasi tutti i nostri allievi già alla fine del corso ce l’hanno. Ed è una caratteristica che –posso garantire- è ancora oggi assai rara nel mondo del cinema italiano. Ben pochi produttori e registi ce l’hanno e i film che spesso escono lo dimostrano assai bene, purtroppo.
Quali sono le caratteristiche per diventare un bravo sceneggiatore?
In questi anni di lavoro (anche come consulente di fiction per la Lux vide) mi sono convinto che per essere un eccellente sceneggiatore occorre avere insieme una grande creatività e una grande razionalità. Per questo i grandi sceneggiatori sono così pochi, perché di solito una caratteristica fa a pugni con l’altra. Ma ci sono persone -e fra i nostri ex-allievi potrei citare alcuni nomi che oggi sono richiestissimi sul mercato della fiction italiana- che miracolosamente riescono a tenere insieme questi due poli. Un buon film, una buona fiction deve innovare, deve sorprendere, ma in un modo per cui alla fine lo spettatore capisce che è giusto che le cose stiano così, anzi, che la sorpresa e il “viaggio” alla fine l’hanno portato più in profondità dentro se stesso e così uno capisce meglio anche la propria vita.
Se la sorpresa non ha una profonda motivazione non risulta neanche interessante. Se invece l’autore trova modi nuovi, inediti, sorprendenti, per dire delle grandi verità, ecco che abbiamo dei capolavori. Da tempo sto seguendo con molta attenzione il caso Pixar e sono convinto che le loro opere (Toy Story, Monsters & Co. Nemo, Gli incredibili, Ratatouille, Up e tutti gli altri loro film) rispondano per antonomasia a queste caratteristiche. Il mio sogno è che fra una decina, magari forse anche venti anni, anche da noi si riesca a fare qualcosa di simile.
E’ un sogno per cui stiamo lavorando…, in modo molto concreto, anche stringendo via via una serie di rapporti con il mondo produttivo americano, da cui abbiamo tante cose da imparare.