Un drammone al rallenti, che ribalta la prospettiva in modo inaspettato ma non regala le tanto attese emozioni e (soprattutto) spiegazioni. Il gran finale di Lost, lanciato come levento televisivo dellanno e trasmesso da Fox in diretta con gli Stati Uniti, è una sorpresa, in molti sensi. Positivi e negativi.
Tutti ci aspettavamo la risposta alla domanda del decennio, che ha scatenato dibattiti sul web, teorie a non finire, riflessioni che finivano inesorabilmente nel buco nero del dubbio: che cosè lisola? Il purgatorio delle anime perse? Il paradiso terrestre? La nuova Atlantide? Un universo parallelo?
Niente affatto: lisola è reale. Il volo Oceanic 815 è davvero precipitato, i protagonisti sono davvero sopravvissuti e hanno scoperto unisola densa di misteri, che custodisce una preziosissima fonte di energia in grado di far viaggiare nel tempo, guarire e uccidere.
O almeno così sembra, visto che Lost finisce esattamente comera cominciato: con la sensazione che ci sia qualcosa che non si riesce ad afferrare. Se lisola è reale, allora cosè la luce misteriosa che Jacob e, nel finale, Jack e poi Hugo devono proteggere? Vita, morte e rinascita, è definita in una delle ultime puntate: insomma, il nucleo di energia che è allorigine alluniverso e che potrebbe causarne la fine, che può guarire gli esseri umani o trasformarli in mostri.
Il binomio bene/male, presente in tutte le religioni e culture (luce e buio, Dio e il diavolo, yin e yang) domina il mondo di Lost, dove i confini tra opposti non sono mai netti e ogni buono ha un lato oscuro, così come ogni cattivo ha un nucleo di bontà: daltra parte, nella cultura cristiana Lucifero era un angelo.
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Ma c’è dell’altro. Fin dall’inizio, la serie ha messo in scena il conflitto tra fede e scienza, rappresentati dal medico Jack (la mente razionale) e dal miracolato Locke (il credente). Solo alla fine scopriamo che il mostro dell’isola era in origine un uomo assetato di conoscenza, una sorta di Ulisse che sognava di attraversare le colonne d’Ercole – insomma, la scienza che tentava di spiegare il mistero profondo dell’universo.
Ma quando l’umana conoscenza varca i confini del mistero crea un mostro che solo la fede può sconfiggere, riportando l’armonia nel mondo. Jack, uomo di scienza, si trasforma nell’arco delle sei stagioni e diventa un uomo di fede, che accetta di proteggere l’isola (il mistero) che un tempo considerava solo un luogo da cui fuggire a ogni costo.
Alla fine, Jack salva l’isola, si sacrifica e muore accompagnato dalle anime di tutti coloro che hanno segnato la parte cruciale della sua esistenza, riuniti per restargli accanto fino alla fine a dispetto di una celebre battuta della serie (“live together, die alone”, “si vive insieme, si muore da soli”).
E così si scopre – e questa è la parte più dibattuta del finale – che i flash sideways, ovvero le linee narrative della sesta stagione ambientate a Los Angeles, non erano il futuro e nemmeno una realtà alternativa, bensì una sorta di aldilà, o forse un luogo mentale nel quale i personaggi proiettano i loro desideri e poi si ritrovano insieme, ormai risolti e in pace con se stessi.
L’isola, dove lottano bene e male, gioia e sofferenza, vita e morte, successo e frustrazione, scelta ed errore, sembra dunque il mondo reale: e meno male, viene da pensare, perché nei flash sideways non esistono conflitti e le (improbabili) coppie si ritrovano in un clima da melodramma per nulla degno del miglior Lost.
Se, come emerge dal (bellissimo) dialogo finale, la sesta stagione altro non è che l’accompagnamento alla morte di Jack, allora perché la commozione fatica ad arrivare? Troppa dispersione nelle puntate precedenti, alcune costruite intorno a personaggi forse non davvero necessari e altre in cui Jack tutto sembrava fuorché l’eroe con cui identificarsi ed empatizzare.
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Tante domande rimangono aperte, per la delusione di chi sperava in qualche rivelazione risolutiva che scardinasse le teorie abbozzate in questi sei anni e desse un senso completo alla serie più ricca e complicata della televisione. Viene quasi da pensare che gli autori abbiano deciso, a dispetto di tutte le teorie, le ipotesi scientifiche, i richiami letterari e religiosi, di risolvere il nucleo della storia in un concetto basilare, così scontato che probabilmente nessuno ci aveva pensato: l’unica cosa che conta, nella vita, è amare. Non essere soli.
È questo il senso della costruzione di una comunità a partire da un gruppo di sconosciuti (tema della prima stagione), della rete di rapporti sentimentali e di amicizia tra i sopravvissuti. E tutti i misteri così sapientemente intessuti, i richiami, le storie che aspettavano di essere riprese e concluse? Lost ci lascia così, persi in un oceano di domande senza risposta.