Altro remake in questa stagione cinematografica di rivisitazioni più o meno fortunate di grandi classici. Questa volta è il turno di La Città verrà distrutta all’Alba di Breck Eisner. Titolo originale The Crazies (I Folli) il film ricalca quello girato dal regista culto degli Zombie Movies George Romero nel 1973. Il confronto con l’originale è inevitabile, e la nuova interpretazione di La Città verrà distrutta all’Alba non ne esce poi tanto male. Sarà perchè Romero è sempre presente, pur nei panni del produttore esecutivo, sarà perchè in fin dei conti il prodotto è buono come opera di intrattenimento.
Guadagna dal punto di vista della tensione – e non solo grazie alle maggiori possibilità tecniche del cinema di oggi ma perde molto dal punto di vista dell’impegno sociale (Romero ci ha invece sempre abituato a una forte connotazione sociale dei suoi film).
La trama de La Città verrà distrutta all’Alba versione 2010 è riassumibile in poche righe. In un piccolo paese della provincia americana gli abitanti cominciano a impazzire e a subire una decadenza fisica che li rende simili a zombie in preda a una furia omicida. Il tutto a causa di un incidente che ha disperso un virus sperimentale e ora i militari devono contenere la pandemia arrivando fino a nuclearizzare la città con un attacco atomico, programmato appunto per l’alba.
In questo quadro apocalittico, un uomo e una donna cercano di sfuggire all’ineluttabile destino. Ciò che al di là della trama colpisce in questo adattamento de La Città verrà distrutta all’Alba è sicuramente, da un lato, il ritmo incalzante e la pregevolissima fattura delle scene più violente, da far “sobbalzare” sulla sedia lo spettatore (come le sequenze dell’incendio della casa, quella del folle che si introduce nell’ospedale da campo, della lotta nella stanza del medico legale, o le scene nella stazione degli autobus).
Dall’altro però, colpisce il senso di totale isolamento dei protagonisti oltre che alla minaccia del virus anche a quella rappresentata dai militari del protocollo di contenimento. Estranei, alieni, una vera minaccia al pari del virus che segna il totale isolamento dalla società dei due protagonisti. Di più, segna l’ostilità della società nei confronti di due persone che, sconvolte nella loro quotidianità diventata estranea e sconosciuta (e questo tema è tecnicamente ben sviluppato dalle sequenze iniziali della partita di baseball), si trovano totalmente espulsi dalla società che li vuole eliminare.
Fino all’apoteosi della bomba atomica che esplode sulla città. Ammazzata ogni speranza di ritorno alla normalità ben prima della scena finale, che fa intuire come la fuga dei protagonisti sia stata vana, La Città verrà distrutta all’Alba, è lo specchio del mondo di oggi: paranoico, senza fiducia e dove gli individui sono maciullati senza speranza dagli ingranaggi di un ordine sociale che si difende con disumana violenza se messo in discussione.
E che alla fine vince.
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Nel primo La Città verrà distrutta all’Alba, invece, Romero presenta l’azione da più punti di vista. Non solo la storia dei due amanti in fuga dall’epidemia di pazzia, ma anche il travaglio di responsabilità del capo delle operazioni militari e – in misura minore – del consulente biomedico che cerca una cura avendo contribuito a creare il virus letale Trixie.
Tutto questo crea nello spettatore una visione completa, una immedesimazione in un problema reale, o quantomeno verosimile soprattutto nei primi anni settanta, e suscita una serie di interrogativi: come porsi di fronte a questa eventualità? Devono prevalere i dubbi etici e di coscienza o l’interesse collettivo, quale bene supremo?
La difesa della società ha un prezzo ed è in sé un valore, pare concludere Romero con il suo film del ’73, ma questa difesa ideologica e conservatrice in piena guerra fredda non è forse peggiore, o tanto pericolosa quanto del male?
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Significativo il fatto che nel film originale la bomba atomica non venga sganciata sulla città, ma rimanga come minaccia incombente, sospesa, come il bombardiere tenuto in quota sulla regione, mentre nel film oggi in sala tutto il pathos di una decisione così grave non sia nemmeno preso in considerazione, ma è anzi ridotto a coreografia.
Tematiche pacifiste, forse, banalizzando, potremmo definirle così, ma che comunque sottendono un fatto: la società è una realtà complessa di cui l’individuo fa parte e con cui deve trovare una giusta modalità di relazione. Insomma il dibattito, nonostante il concreto rischio di una guerra mondiale e i fermenti del terrorismo ideologico era aperto e si cercava una possibile risposta alla domanda: che posto ha l’uomo nella società?
Chi ha il primato sull’altro? Perché oggi a questa domanda non si cerca più di rispondere?
Gian Maria Corbetta