Dennis Hopper se ne è da poco andato. Ci ha lasciato a settantaquattro anni per un tumore alla prostata che già da qualche tempo lo affliggeva, senza però farlo rinunciare alla recitazione, suo primo amore, come dimostrano le sue importanti partecipazioni alla serie televisiva Crash (tratta dallomonimo film di Paul Haggis) e allultimo lungometraggio di Wim Wenders Palermo shooting.
Se ne è andato un brillante interprete che ha da sempre incarnato (che si trattasse del film dautore o del grande blockbuster) il ruolo del folle, prima che del cattivo tout-court, vertice raggiunto con lo splendido Velluto blu di David Lynch, in cui interpreta in maniera eccelsa e sopra le righe un gangster in cui convivono come in un insano rendez-vous, violenza e tenerezza, amore e follia.
Ma ricordare Dennis Hopper solo per la sua carriera attoriale è alquanto limitativo, dato che ha contribuito con il suo film da regista più celebre, limmortale Easy rider, a traghettare fuori dalla crisi e dalla banalità gli studios hollywoodiani, contribuendo a dare inizio a quel periodo denominato New Hollywood che diede vita ad alcuni tra i più grandi talenti del cinema, come Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Sam Peckinpah, Jack Nicholson, Robert De Niro e dalle cui ceneri nacque in maniera inaspettata il cinema indipendente americano.
Easy rider rimane però una pellicola atipica, anche rispetto agli altri film della New Hollywood. Easy rider nacque in totale libertà (per non dire anarchia), senza una sceneggiatura vera e propria e con dialoghi improvvisati, con una struttura narrativa eretta chilometro dopo chilometro, documentando (più che filmando) il mondo che i due motociclisti/cowboy protagonisti della pellicola incontrano nel loro viaggio attraverso quellAmerica che stanno cercando, e che non troveranno da nessuna parte (proprio come recita la tagline sulla locandina originale).
Grazie allo splendido e lucido lavoro di Laszlo Kovacs alla direzione della fotografia, Easy rider arriva in sala di montaggio dove Dennis Hopper lo cuce in una versione di più di tre ore, versione che risultò indigesta anche agli stessi produttori/interpreti del film, Peter Fonda e Jack Nicholson.
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Convinto a ridurre la durata della pellicola, Hopper torna in sala di montaggio e sforna la versione definitiva del film, in cui riecheggiano i grandi stilemi del cinema hollywoodiano (soprattutto il western classico e i suoi campi lunghi) completamente rinnovato grazie ad alcuni splendidi momenti in cui la Nouvelle Vague francese si prende la briga di raccontarci la storia di desiderio e delusione della Nuova America e della New Hollywood.
Nell’America descritta da “Easy rider” non c’è solo la storia di un gruppo di giovani che scopre la morte (come il crudo e improvviso finale o la lisergica sequenza al cimitero), ma c’è soprattutto il racconto sommesso e doloroso di una generazione che prende bruscamente coscienza della morte dei propri sogni e dei propri desideri di cambiare il mondo, un mondo in cui iniziano a palesarsi la paura e il disgusto, parafrasando il titolo di un altro celebre libro/film che ci racconta la morte dell’America sognata dai Figli dei fiori (“Paura e disgusto a Las Vegas”di Hunter S. Thompson).