Ho visto The Road. Anticipo: questa, non è una recensione. Non commento la fotografia. Non esprimo giudizi sulle scelte registiche. Nemmeno vi dirò se e quanto libro e film si assomiglino. Sono qui, per dire che ho visto The Road; e non ho dormito due notti.
Io, sono una fagocitatrice professionista di pellicola cinematografica: trangugio almeno una decina di film la settimana (ammetto che ultimamente la media è lievemente calata; ma sono entrata nel tunnel di Grays Anatomy e Nurse Jackie. Poi cera Lost da finire – se non per amore, per dovere -, un occhio a Flashforward da buttare, qualche prodotto nuovo della HBOinsomma: la media, ammetto, è lievemente calata).
Quindi, capirete, nella mia vita, di film, ne ho visti un discreto numero. Sarà che sono Scorpione, o che sono cresciuta a pane e Dawsons creek, sta di fatto che le emozioni sono sempre torrenziali, in me. Ai tempi di Titanic (che vidi otto volte, solo al cinema; per dire) piangevo disperata strepitando No Leo ti prego non morire. Eppure, quella notte, ho dormito.
Uscita dalla sala dove proiettarono Kill Bill, mi ripromisi di acquistare al più presto una spada, prendere lezioni di Kendo e sciabolare in settimana tutti i miei nemici. Però, anche quella notte ho dormito.
Come tutti, poi, sono passata per i grandi classici del vabbè dai, stasera film horror?: Lesorcista, Profondo rosso, 28 giorni dopo (Dio mio, che paura mha fatto). Male, ma anche lì ho dormito.
Ho visto The Road. E mi è costato due notti. A differenza di Irene, che quella sera venne con me solo perché convinta – con linganno – che si trattasse di una commedia sentimentale, io conoscevo la storia; sapevo di non avere davanti due ore di Ti amo, no forse no, invece sì, dai sposiamoci. Daltronde, temprata da anni passati come detto sopra, credevo di poter stare tranquilla.
Non so ancora, esattamente, cosa sia stato a sconvolgermi tanto. Forse, il vedere per la prima volta un uomo realmente spogliato di tutto. Radicalmente nudo. Senza lavoro, senza casa, senza cibo, moglie, vestiti, amici.
Atrocemente solo, in un mondo nemico dove i pochi sopravvissuti sono dei disperati peggio di lui o cannibali; un mondo dove non puoi appellarti a nessun sentimento umano, dove non è lecito neppure chiedere pietà, perché non la otterresti. un isolamento tanto strutturale quello del protagonista, da non essere ultimamente scalfito nemmeno dalla presenza di suo figlio.
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Per cosa vale la pena vivere? È la domanda che i 119 minuti di pellicola ti piantano in mezzo ai polmoni con una violenza che leva il respiro. D’istinto, diresti che la risposta è il bambino; la speranza, è il bambino; la speranza, è salvare l’unica cosa pura – e quindi sacra – rimasta.
Eppure, a me questo non ha convinto; l’accanimento di Mortensen nel proteggere il frutto dei suoi lombi mi è parso più cieca ossessione che conseguenza dell’amore. Di fatto, quel ragazzino non può essere salvato, perché freddo, fame e cannibali – le fisionomie che qui assume il Male -, non sono eliminabili. Si scappa da una morte che prima o poi ci piomberà addosso comunque. Siamo spalle al muro.
Forse, è questo che mi ha tenuto sveglia. Chiedermi: per cosa vale la pena?, e non saper rispondere.