Tratto dal celebre film che nel 2006 conquistò tre Oscar, Crash – la serie ne ripropone lidea di base, lo stile e il tono, anche se questultimo risente maggiormente delladattamento al piccolo schermo.

Non è il caso di fare paragoni. La squadra di allora si è schierata anche in questa discesa in campo. A partire da Paul Haggis, regista e sceneggiatore del film e qui tra i produttori. Lo stesso Paul Haggis che tempo addietro firmò la sceneggiatura di The Million Dollar Baby (2004), per la regia dellinafferrabile Eastwood.

Chissà se Clint ha visto il film o la serie, verrebbe da pensare soprattutto alla luce del suo Gran Torino (2008), ambientato in unAmerica che sembra per tanti versi lontana e allo stesso tempo vicina a quella raccontata da Haggis. Si, perché a voler fare i pignoli i messaggi che emergono dalle due opere sono diametralmente opposti, pur nascendo da una comune matrice: la difficoltà di comunicazione.

In Eastwood cè un segnale di speranza. Al di là della differenza razziale si nasconde un comune sentire umano che permette di sconfinare oltre la chiusura. In Crash, nel film quanto nella serie, la difficoltà di comunicazione diventa impossibilità. Siamo a Los Angeles, ma non nelle vie glitterate di Hollywood dove impera lestetica del facile. Siamo nella terra di nessuno, nella parte oscura della città, quella in cui nessuna legge vale se non quella della forza e della violenza.

Qui la parola dordine è sopravvivere. Per tutti. Non solo per le minoranze che fanno di Los Angeles una babele di popoli. Anche per chi è bianco e ha un lavoro di tutto rispetto. Puoi essere un discografico, come Ben Cendars, interpretato dal grande Dennis Hopper, e non avere ormai niente più altro da fare se non cercare di stare a galla esercitando il tuo potere – professionale e virile – su unamicizia ambigua e su un autista nero che ha solo bisogno di soldi. Per fortuna che cè la droga a far dimenticare i fasti trascorsi.

Oppure puoi essere una buona moglie e madre di famiglia – bianca e benestante – che tenta di mantenere intatto lequilibrio familiare sconvolto dallarrivo inaspettato del burbero e ammalato padre. Puoi essere una poliziotta che ha una relazione clandestina con un collega che, nel seguire delle indagini a Korea Town, si dimentica quale sia il confine tra la giustizia e la criminalità sotterranea che perseguita.

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Oppure puoi vestire i panni degli “immigrati”, quelli che sono scappati dalla propria terra per cercare fortuna e hanno tentato di redimersi seguendo il sogno americano. Pur sempre straniero resti e in una contemporaneità che parla la lingua della globalizzazione sembra che la reazione delle minoranze sia chiudersi e difendere la propria identità. In realtà, però, non solo solamente le minorante a isolarsi. È una reazione comune, di bianchi e non, di ricchi e poveri, famosi e clandestini. È la necessità di difendersi dalla violenza della vita quotidiana. Anche se poi, alla fine, abbiamo bisogno l’uno dell’altro per uscirne.

 

In questo consiste la bellezza di Crash, sia film o serie. Costringe a riflettere circa il paradosso dei tempi moderni e lo fa con una tensione emotiva degna del predecessore in pellicola, anche se meno incisivo. Sul grande schermo non mancava un ritmo serrato, qui è più debole, ma ugualmente efficace nel rendere palpabile la tensione dei silenzi, delle verità nascoste o delle parole non dette.

 

Dialoghi non banali, oltre a una fotografia che nel film virava sui toni scuri mentre qui è chiara, tradizionale, quasi a volerci dire che tutto quanto viene raccontato è reale, che c’è davvero una Los Angeles/mondo che recita questa parte.

 

Sembra che l’unica verità sia quella della passione e dei sentimenti, anche in questo caso clandestini, carnali e violenti, che possono unire o uccidere.