Deserto. Sassi e sterpaglia. Un pick-up traballa in mezzo al deserto. Si ferma. Le portiere si spalancano. Sono un uomo e un bambino. I due non parlano. Intorno a loro, il nulla, niente di niente fin dove locchio può arrivare. Luomo guarda il bambino. Il bambino è suo figlio.

Luomo ha un pensiero: ma se io non potessi tornare a casa, se non ci fosse più una casa a cui tornare, se questa cosa qui, io e lui in mezzo al niente, fosse proprio la nostra vita, e nientaltro: io basterei a lui, e lui basterebbe a me?

Luomo era il romanziere Cormac McCarthy, il bambino era suo figlio John e aveva 6 anni e quel momento e quella domanda sono diventate The Road (La Strada), romanzo di bellezza misteriosa e scioccante.

Dopo un travaglio produttivo particolarmente lungo e doloroso (il progetto è partito nel 2006), è finalmente arrivato in sala il film che John Hillcoat (regista) e Joe Penhall (sceneggiatore) hanno tratto dal romanzo.

Un padre e un figlio (Viggo Mortesen e Kodi Smit-McPhee) attraversano un mondo morente cercando di arrivare al mare. Non si sa cosa sia accaduto (McCarthy stesso disse di non averne idea), ma tutto è bruciato, la cenere satura laria e vela il sole, lumanità si è involuta fino a tornare cannibale. In mezzo, luomo e suo figlio. I pericoli sono due: che qualcuno ti faccia del male e, soprattutto, che nel tentativo di sopravvivere ti dimentichi della tua umanità. Siamo ancora noi, i buoni? chiede il bambino.

Hillcoat gestisce il materiale scegliendo la via della fedeltà assoluta, persino didascalica, al romanzo, lasciando al centro questamore feroce e scarno tra luomo e il figlio (nel film, come nelloriginale narrativo, nessuno dei personaggi ha nome), partorendo unopera anche bella.

Ma è unesperienza molto strana, vedere questo film. Perché esci dalla sala con la chiara percezione che cè qualcosa che non ti convince, ma non è che si capisca esattamente cosa. Possiamo giusto affastellare dei forse.

Forse è perché cè una certa asciuttezza nelle parole di McCarthy che nessun medium audiovisivo riuscirà mai a restituire, e il tentativo ostinato di farlo rende lesperienza in sala una specie di fiume non guadato: cè la narrativa su una sponda, il cinema sullaltra, e questo film in mezzo.

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Forse è l’antico problema che, con un libro di successo, ogni regista si scontra con la concorrenza peggiore che ci sia: il film che ogni singolo lettore ha già girato nella propria testa. Forse è proprio per la fedeltà pedissequa dell’adattamento, che fa nascere un dubbio di fondo: ma perché l’han fatto, questo film?

 

Contrariamente a una diffusa credenza, infatti, non è la fedeltà a fare di un buon romanzo un buon film: è lo sguardo particolare, la sensibilità personalissima di chi scrive e chi dirige a convincere. Un romanzo è come un paesaggio; un film è decidere dove guardare. L’impressione è che Hillcoat abbia tentato di rifare un paesaggio, ma al cinema non si può fare, e infatti gli è venuto fuori un film che non sa bene dove guardare.

 

Ma, come detto, è tutto molto strano, perché non è che il film sia brutto, anzi: e lo sforzo produttivo, a fronte di un budget di soli 25 milioni di dollari, è notevole. Splendida fotografia, scenografie ben realizzate, musiche giuste, Mortensen è molto bravo, Smit-McPhee è semplicemente impressionante, considerando la densità delle scene che ha dovuto girare a soli 11 anni (su tutte, quella in cui il padre, con calma, gli insegna a suicidarsi). E la storia, appunto, è una delle più profonde e belle che gli uomini si siano mai raccontati. Eppure…

 

Forse la verità è che non c’era bisogno, di questo film. Forse.

 

(Alvaro Rissa)

 

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Trailer fornito da Filmtrailer.com