Dopo sei lunghi anni è arrivato il momento di tirare le somme. doveroso farlo, soprattutto per una serie televisiva come Lost, già entrata di diritto nella storia dellimmagine in movimento grazie alla sua capacità di influenzare gli analoghi prodotti da tubo catodico (per non dimenticarsi poi del cinema) e di rivoluzionare il modo di fruizione della serie televisiva e dei metodi usati per pubblicizzarla.
Lost ha lasciato il segno nella storia, questo è sicuro, e lo fatto soprattutto grazie allabile scrittura del team di sceneggiatori, capaci di unire la fantascienza alla riflessione filosofica sulluomo, i collaudati metodi narrativi delle serie tv al respiro lungimirante ed epico del grande cinema.
Se in precedenza avevamo già parlato di come la serie creata da J.J. Abrams utilizzi sapientemente tutto il bagaglio filosofico occidentale e orientale per mettere in piedi una delle più affascinanti e complesse lotte tra il bene e il male, sembra ora doveroso analizzare le modalità con cui gli sceneggiatori sono riusciti a tenere milioni di telespettatori legati allo schermo per sei lunghissimi anni.
Una struttura narrativa ricca e variegata, tutta volta a creare la suspense (con i celebri cliffhanger che ci hanno fatto tenere il respiro tra una puntata e unaltra) in maniera incisiva ma semplice. Infatti, pur creando una fitta rete di misteri, Lost ha sempre sottolineato quali erano quelli più importanti e quali quelli meno, riuscendo a farli rimanere impressi nella nostra mente per tutti questi anni dove, di fatto, abbiamo sempre sperato che tra una puntata e laltra ci fosse spiegato il mistero dei geroglifici oppure il segreto che si cela dietro ai poteri del piccolo Walt.
Ma questa, in fondo, è solo sabbia negli occhi. La tecnica narrativa realmente vincente di Lost è il flashback (e variazioni sul tema), che sin dalla prima serie domina incontrastato sulla struttura del racconto. Lost ridà vita a un meccanismo narrativo ucciso dal cinema (che lo ha reso spesso didascalico), riportandolo in auge in modo innovativo: la storia scorre su due binari paralleli, il presente e un tempo lontano (futuro o passato che sia).
In questo modo il flashback amplia la visione che abbiamo di quel personaggio, non solo perché scopriamo il suo passato, ma perché spesso le due fasce temporali sono unite da una sorta di rapporto causa-effetto (a volte reale, a volte puramente tematico) che rende tridimensionali i protagonisti della serie (perché tutti i personaggi in Lost sono protagonisti).
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E in fondo è questa la vera forza della serie televisiva: un gruppo di personaggi scritti in modo preciso e attento, pulsanti di emozioni. Non è un caso che dopo due serie come la quarta e la quinta sin troppo concentrate sugli aspetti scientifici e fantascientifici della storia, la sesta serie ha segnato un definitivo ritorno al racconto intimo dei protagonisti, fino a sfociare nel finale che ha lasciato molti a bocca asciutta.
Perché il finale non fa altro che ribadire questo concetto, ovvero che le piccole storie dei personaggi, sono più importanti della grande storia dell’isola e dei suoi misteri. Seguire il cammino di questi personaggi perduti tra le rovine del mondo a cui è stata data una possibilità di riscatto, questo è Lost.
E guardare l’ultima puntata è un po’ come salutare per l’ultima volta dei cari vecchi amici che ci hanno accompagnato per tanto tempo, che ci hanno fatto sorridere, piangere, che ci hanno fatto comprendere qualcosa in più di noi stessi. Senza mai dimenticarsi di farci divertire, di farci appassionare, come solo poche serie televisive sono riuscite a fare.