In una prima serata di questo torrido luglio, RaiUno ha trasmesso il film diretto nel 2001 da Irwin Winkler, Lultimo sogno, con Kevin Kline, Kristin Scott Thomas e Hayden Christensen. La critica non è benevola nei suoi confronti: lha tacciato di essere melenso e zuccheroso, salvando solamente la bravura del cast.

Ma, seppure indirizzati da chi ne sa, o dovrebbe saperne di più, è sempre meglio guardare con i propri occhi. In questo caso, dentro una trama che può avere elementi scontati, cè qualcosa di solido che raramente il cinema tratta con forza e pudore.

Larchitetto George Moore scopre a cinquantanni di avere un cancro e pochi mesi di vita. Separato dalla moglie, suo figlio Sam si droga e appare al culmine di un processo di estraneità a tutti e a tutto. George gli impone di passare lestate insieme, in una baracca a picco sulloceano, che egli vuole ricostruire.

La casa e la scogliera sono metafore della condizione umana, esposta alla precarietà dellesistenza; non a caso il titolo originale del film suona: una casa come la vita.

La tenacia di George nel demolire e nel ricostruire incrina anche la forte resistenza di Sam nellaiutarlo, soprattutto nel lasciarsi amare e quindi nel cambiare. Dapprima narra al figlio la sua adolescenza inquieta, in lotta con un padre violento, che giocava a farlo sentire sempre inferiore a lui. Poi lo inchioda al fatto che Sam è a malapena vivo, quando lui vorrebbe solo che egli fosse felice e infine gli accenna come sia avvenuto il proprio cambiamento, di schianto.

Infine, in un dialogo molto franco gli rivela la sua malattia: Ho un problema col cancro. Un problema che non si può risolvere. Volevo passare un po di tempo con te. Le cose capitano sempre per una ragione. Da una cosa brutta viene una cosa bella. A Sam che con violenza gli rinfaccia di averlo voluto con sé per egoismo, George risponde: Ti ho voluto qui non per piacerti, ma per farmi voler bene.

Ed è levidenza semplice di questo amore paterno che fa crollare le difese del figlio e lo conquista. Sarà lui a terminare la casa sul mare e la farà vedere tutta illuminata al padre da lontano, dalla finestra dellospedale, pochi giorni prima della sua morte.

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Se si deve completare la metafora, l’opera umana raramente è compiuta, ma può essere portata a termine, a patto che chi viene dopo ne riprenda l’originale disegno. Legno, pietra, e soprattutto il segreto patto tra due uomini che si sono conosciuti tardi sì, ma non a sufficienza per poter evitare di amarsi.

 

In un film in cui le magagne della famiglia, non solo americana, sono evidenti, l’accento è posto sul rapporto padre-figlio. Finalmente un padre non assente, anzi grazie alla malattia, dolorosamente presente innanzitutto a se stesso, un uomo che sa sobbarcarsi l’adolescenza ribelle del figlio e lentamente lo conquista a ciò che egli stesso ha capito solo da poco.

 

Che poi attorno a loro si ricostituiscano relazioni più umane e costruttive, è conseguenza confortante e abbastanza realista. Ma il primo cambiamento avviene all’interno di quel rapporto originario, a sua volta fonte di sanità psicologica, che è l’accettazione del padre.