Giunti alla fine della riproposta estiva del sesto ciclo di Un medico in famiglia vale la pena spendere qualche parola su una fiction che ha ottenuto grande successo fin dal 1998 e che si appresta a tornare sul piccolo schermo per la settima volta con una produzione originale.
Innanzitutto va detto che il successo di una trasmissione non è mai da guardare con sufficienza, quasi si trattasse di un fenomeno popolare sì, ma proprio per questo di basso livello, adatto a palati non raffinati. Se milioni di spettatori sono stati incollati alla televisione dalle vicende della famiglia Martini, ciò significa che personaggi e storie hanno colto qualcosa con cui il pubblico si è riconosciuto.
Ad esempio la realtà di una famiglia allargata, protettiva, attuale e al tempo stesso legata al tradizionale ruolo dellautorità. Chi, nella polverizzazione dei nuclei familiari di oggi, non desidererebbe almeno un grande tavolo da pranzo, dove la colazione è sempre pronta e dove si prendono le decisioni più serie?
Poi lambiente medico, come sempre pieno di relazioni significative, di casi umani, di avventure sentimentali. Non è una novità che lospedale e la scuola siano i luoghi dove lumanità è più scoperta e dunque raccontabile.
Infine le figure di contorno, che ruotano attorno al nucleo costituito dai componenti della famiglia Martini: persone con storie strampalate, a volte macchiette, più spesso con disagi e dolori, che trovano un ancoraggio almeno temporaneo in una casa abitata da gente che si vuole bene. Tutto questo entra un po nellesperienza, o almeno nel desiderio, di molti.
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Tutto bene, dunque? Si, se non fosse per una strana malinconia che prende alla fine di ogni episodio. Essa non sarebbe neanche una cosa cattiva, se fosse qualcosa che apre a un desiderio più grande di bene. Questa invece sta lì, e non svanisce, come un peso o come l’inconfessato rimpianto di aver usato male il tempo.
Sì, perché i personaggi e le storie, nonostante le risate, le tenerezze, i tradimenti, le stranezze, sono per la maggior parte molto malinconici, ripetitivi nei loro comportamenti, statici. Sembra che gli anni non li abbiano fatti crescere. Le loro relazioni tessono una tela che sembra imprigionarli, senza alcuna apertura reale verso l’imprevisto, e men che meno verso l’alto.
Può sembrare esagerato tirare in ballo Shakespeare per una fiction televisiva, ma come aveva ragione quando scriveva: “O errore, figlio odioso della malinconia, perché mostri agli uomini impressionabili cose che non sono?”. La verità non è mai inopportuna, anche quando illumina le cose fatte per distrarre, mostrando il vuoto che sostanzia le cosiddette cose concrete.
La malinconia sana svela il bisogno di solidità, di corpo, che tutti, anche i più frivoli, hanno. Essa impedisce di rimanere irretiti nelle cose che impressionano, in questo caso attori credibili ed episodi realistici, capaci di svegliare un’emozione momentanea o il gusto della ripetizione, ma non di suggerire ciò che si cerca anche nello svago, qualcosa che duri.