In occasione della sua straordinaria partecipazione allultima edizione del Meeting di Rimini come relatore principale (insieme al regista Alessandro DAlatri) di un incontro sul cinema e i suoi protagonisti, siamo riusciti ad avvicinare e a scambiare alcune battute con uno dei più titolati tecnici del suono del cinema americano, il tre volte premio Oscar per il sonoro de Lesorcista (1973), Amadeus (1984) e Il paziente inglese (1996) Christopher Newman, che ha allattivo il mixaggio audio di oltre 85 film.




Ci racconti delle sue prime esperienze, della sua prima ispirazione, quella seguita per entrare nel mondo del cinema…

 

Non sono entrato nel business per essere tecnico del suono: sono entrato nel business per fare cinema. Al tempo in cui, nei tardi anni Cinquanta, amici dellambiente e il sottoscritto volevamo essere filmmakers. La Nouvelle Vague stava arrivando in America e tutti volevano fare cinema. Così ho detto: «Wow! Farò cinema anchio. E ho aiutato i miei amici a fare cinema. Ho aiutato i miei amici a fare cinema, abbandonando il college: non ho studiato suono ma mineralogia, ingegneria mineraria. Avevo bisogno di qualcosa per tirare avanti perché non avevo mezzi per vivere: vendevo gelati in Times Square a New York e ho fatto ogni tipo di lavoro.



Come è arrivato al sound engineering?
 

Ho deciso che il suono era molto interessante perché era magia: tu premi il bottone, la macchina fa qualcosa, tu premi per tornare indietro ed ecco qua: questa è magia! Non devi nemmeno comprendere la tecnologia di tutto ciò: funziona. Così ho iniziato a prendere sul serio la cosa, ho annunciato al mondo che ero un tecnico del suono, non avendo nessuna esperienza come tecnico del suono. Ho risparmiato del denaro, ho comprato uno dei primissimi registratori Nagra uno dei primi che fossero stati mai portati negli Stati Uniti (era il 1961) e ho iniziato il lavoro di recording. Ho lavorato negli studi di registrazione: mi davo da fare per un niente, giusto per imparare qualcosa del mestiere. Lavoravo un giorno al mese facendo qualsiasi tipo di pubblicità perché in quei giorni a New York, se lavoravo un giorno al mese, mi pagavo laffitto: ora non più! E poi ho lavorato due giorni al mese e poi un giorno alla settimana.



Quando è giunto il momento del salto allattività professionistica nel cinema?

Sognavo di lavorare per diventare filmmaker. Ho fatto delle cose bellissime con i documentari negli anni Sessanta – ero in Vietnam nel 1966, lavorando per la NBC. E specificatamente con quei lavori, ho ottenuto il mio primo lungometraggio, che era un documentario cinematografico dedicato principalmente ai disordini a Chicago alla convention nazionale del Partito Democratico nel 1968. Un film chiamato Medium Cool [pellicola del 1969 di Haskell Wexler uscita in Italia col titolo America, America dove vai?, ndr]. E da allora ho avuto piuttosto fortuna: il posto giusto al momento giusto, proposte di buona qualità, collaborazioni con le persone giuste, l’arrivo di un lavoro dopo l’altro.

Lei ha lavorato anche – e non poco – con Sidney Lumet…
 

Molte volte! Fino al meraviglioso Before the Devil Knows You’re Dead (Onora il padre e la madre, 2007), girato quando Sidney aveva già più di 80 anni: non ha trovato finanziamenti per il suo contenuto molto violento ma è davvero un magnifico brano di cinema… Oh, io amo lavorare con Sidney: ci si incontra, si lavora molto rapidamente e in maniera molto risoluta, per me coinvolgente. Lo amo: mi lascia solo, non mi dice quello che devo fare, io non gli dico quello che faccio, entriamo direttamente nel lavoro e ci divertiamo. Un uomo delizioso, davvero un uomo delizioso…
 

Durante gli anni come ha visto cambiare i rapporti tra regista, attori e resto della troupe, in particolare i tecnici?

 

 

Il business è cambiato drammaticamente dagli anni Sessanta venendo a oggi. Tra gli anni Sessanta e Settanta – e probabilmente anche prima – il regista guidava il set mentre i tecnici potevano conversare con il regista, con gli attori e discutevano prestazione, comportamento, tutto: il tecnico poteva fornire un contributo, fornire un tipo particolare di contributo durante la lavorazione del film. Mia moglie sottolinea che a metà degli anni Ottanta, quando gli attori e i registi hanno cominciato a guadagnare delle cifre davvero notevoli, sono diventati due sistemi ben separati: registi e attori da una parte, tecnici dall’altra.

Quali sono stati gli effetti di questa trasformazione?
 

Ad esempio: io ero abituato a ricevere tutto il mio lavoro direttamente dai registi – li chiamavo e mi assumevano, o mi chiamavano e mi assumevano loro. Solo negli anni Novanta ho dovuto iniziare a ricevere il lavoro dai produttori. In alcuni casi c’era molto potere – lo si poteva vedere – nel rapporto tra produttori e registi a proposito di quale fosse la loro troupe, di chi davvero volessero e così via. Ma tutto ciò ha portato al fatto che adesso gli attori hanno uno straordinario comando del set: forse in Italia è diverso, ma in America gli attori assumono i registi.
 

Nonostante le più svariate difficoltà incontrate, la passione per il suo lavoro è stata continua?
 

Io amo il mio lavoro. Però dall’anno scorso sto solo insegnando. Ho deciso di andare in pensione per molto tempo perché, avvicinandomi ai 70 anni, mia moglie mi ha chiesto di fermarmi e di stare accanto a lei. Ho deciso di non fare più film e di dedicarmi solo all’insegnamento. Sto tenendo parecchi corsi e sto cercando di crescere molti studenti perché possano diventare ben più di persone che risolvono problemi.