Come (credo) ogni donna nel range 25-45 anni che ultimamente si sia chiesta cosa cè di bello al cinema?, riponevo grande fiducia in Mangia, Prega, Ama. I presupposti per un paio dore ben impiegate, daltronde, cerano tutti: Julia Roberts (per farsi due risate), filosofia del carboidrato libero (per fugare una buona dose di sensi di colpa), Luca Argentero e Havier Bardem (per lustrarsi gli occhi). Tanto più che la suddetta pellicola è tratta da una storia vera, sintomo che tipicamente indica la possibilità dimparare qualcosa/trarre uno spunto utile per la propria vita.
Mangia, Prega, Ama prometteva di essere il classico film che ti riconfigura lassetto esistenziale nella direzione la vita è una, è mia, e voglio godermela; uno di quelli con funzione catartico-espiatoria per intenderci, che ti fanno tirare un sospiro di sollievo sia sul chilo in più eredità delle vacanze, che sulle psicosi di stampo lo chiamo o non lo chiamo?.
Quindi, felice come una pasqua, giovedì mattina mi dirigo alla proiezione per i giornalisti; cerco di escludere dal mio campo percettivo la perforante voce della mia vicina (Kurosawa è un genio. Io farei qualunque cosa per lui però ammettiamolo, i suoi ultimi lavori sono decisamente indulgenti) e mi piazzo in poltrona, pronta a godermela.
Liz, donna insoddisfatta del suo ménage, decide di mollare tutto e prendersi un anno sabbatico per girare un pezzo di mondo e riscoprire quei tre essenziali aspetti che rendono una vita degna di essere vissuta.
Prima tappa. Roma. Mangia. In questo capitolo, il personaggio – credo fossero queste le intenzioni degli sceneggiatori – doveva riscoprire la joie de vivre attraverso lo stomaco; idea semplice e brillante, nonché, come tutti sappiamo, esperienzialmente vera. Cosa cè di meglio di un buon pasto consumato con gusto?
Purtroppo però, non è questo a trasparire dalla pellicola; i primi quattro mesi che Julia passa a Roma (mostrati con tanto eccesso di particolari da incutere il timore che dallentrata in sala quei quattro mesi siano effettivamente trascorsi) sembrano un documentario sulla produzione del foie gras: prendete loca (non per dare delloca alla Roberts, solo per fare una similitudine), rinchiudetela in una gabbia (Roma) e imbottitela di cibo fino a farle esplodere il fegato (o i jeans); altra nota negativa, lItalia di Mangia, Prega, Ama è un groviglio di stomachevoli cliché come non se ne vedono neanche nelle fiction di serie C.
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Seconda tappa. India. Prega. Cosa c’è di più lontano e privo di significato – mi domando – per una donna occidentale che svegliarsi alle quattro del mattino, lodare in una lingua sconosciuta una casuale divinità induista (della quale ovviamente non si sa nulla) e passare le ore successive della giornata a meditare in silenzio? Quale arricchimento della propria umanità ne dovrebbe scaturire?
Terza tappa. Bali. Ama. Dall’inizio ormai è passato troppo tempo e la mia capacità di sopportazione sta per esaurirsi. Magari – penso tra me e me – l’inciucio con Bardem risolleva le sorti del film. Sbagliato. Innanzitutto il povero Havier è doppiato in modo così grossolano da far risultare ogni sua battuta davvero poco credibile. In secondo luogo, la love-story è insipida e mal raccontata.
Quindi, per riassumere: questo non è un bel film; d’altro canto, non è sufficientemente orripilante da sconsigliarvi in assoluto di vederlo. Mettiamola così: se non avete alternative per la serata, se avete già visto Bananas o Io e Annie (di Woody Allen), se proprio quei sette euro vi crescono e non sapete come investirli, se tutte queste condizioni si verificano contemporaneamente, allora e solo allora potete sentirvi legittimati a comprare un biglietto per Mangia, Prega, Ama.