La solitudine dei numeri primi è un film crudele e sincero. Lo è nelle immagini, nelle cicatrici visibili e più o meno fresche che si disegnano sui corpi dei protagonisti. Lo è nella tematica, quella dellabbandono, che poi altro non è che laltra faccia della medaglia chiamata solitudine.
Solitudine. Uno stato danimo – e dessere – che brucia nei due protagonisti, Alice e Mattia, sin da quando sono bambini e che si accentua nel tempo e nel rapportarsi con lesterno. Alice, zoppa in seguito a un incidente sugli sci, e Mattia, autolesionista con il genio della matematica. Sono gli altri a non capire loro oppure sono i due ragazzi a non consentire agli altri di entrare nel loro personalissimo mondo?
Mattia e Alice, invece, sì, si capiscono. Parlano la stessa lingua, fatta di silenzi, di sguardi colpevoli e fugaci. Basta unocchiata timida e introversa nel corridoio di scuola per stabilire un contatto che è linizio di una storia soffocante nella sua incapacità di evolvere. Eppure loro due, come dice la matematica, sono due numeri primi, fatti, nella loro unicità, per stare in un insieme.
un film, questo, in cui la corrispondenza tra le immagini e il tema è molto forte. Le piaghe fisiche ancora doloranti sono il segno tangibile di ferite interiori. Nel caso di Mattia sono i tagli che volontariamente si procura. Per Alice, invece, si tratta della ferita allanca, lanoressia e un tatuaggio – frutto istintivo di unamicizia adolescenziale. Cè ununica parola per spiegare il motivo di questo dolore. Abbandono. Che è un vuoto lasciato dai genitori di entrambi nei loro animi troppo fragili per reagire alla sofferenza.
La solitudine dei numeri primi è anche questo, un viaggio lungo tre età – infanzia, adolescenza, maturità – nel rapporto tra genitori e figli. Le colpe dei padri ricadranno sui figli. Sì, ma nella misura in cui chi dovrebbe educare ha un ego troppo grande per prendere fra le mani il cuore vuoto di un figlio e colmarlo dellamore di cui ha bisogno. Mattia ha otto anni e la madre non gli riconosce via di scampo. Deve occuparsi della sorella gemella, che con il suo ritardo mentale gli chiede una responsabilità troppo grande per un bambino che, pur rispettando lamore fraterno, vuole sentirsi uguale a tutti gli altri.
Alice, invece, subisce le ambizioni del padre, un imprenditore votato a sentirsi il numero uno e che costringe sua figlia ad essere ciò che non vuole. Come per Mattia il padre è assente, così per Alice lo è la madre, troppo debole per il suo ruolo. Limmagine che la incornicia è di lei in biancheria intima, capelli corti e di un biondo sconvolto, davanti allo specchio, con lo sguardo perso nella nebbia del fumo. La stessa dolorosa immagine in cui è dipinta Alice in una delle scene finali. Corrosa dallanoressia, silente nellimmobilismo della sua sigaretta. Cosa vuol dire? Che i nostri genitori sono limmagine del nostro futuro? Che in fondo il nostro destino è già segnato? Oppure che i traumi – siano essi parole, immagini o situazioni – che viviamo da piccoli diventano la base del nostro avvenire?
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Mattia e Alice si completano. Non solo perché sono unici, ma perché Mattia sa cosa significhi abbandonare. Lo ha fatto con la sua sorellina. L’ha lasciata al parco per sentirsi libero di andare a una festa senza il fardello che lei rappresenta. Questo diventa, paradossalmente, il suo punto di congiunzione con Alice. Lui ha abbandonato, lei è stata abbandonata, in quella scarpata innevata. In entrambi i casi questi sono i rispettivi punti di non ritorno. I momenti in cui nel loro animo si rompe qualche cosa dentro che li rende completamente soli.
Per Alice, però, l’abbandono è duplice. In questo Costanzo esplora con lucido e spietato realismo le dinamiche adolescenziali. Perché, per fortuna, sugli schermi cinematografici italiani l’adolescenza non è solo quella della ricca borghesia romana che annoia pagine di sceneggiature italiane. C’è anche un’età più dura, quella dei ragazzi timidi e deboli che devono sopravvivere in una giungla di coetanei spocchiosi. È il caso dell’amicizia di Alice con Viola, la bella del gruppo, quella che può tutto e non deve chiedere niente. Mentre Alice è scheletrica e zoppa. È un’amicizia sofferta la loro, difettosa, quasi morbosa. Gelosa, possessiva come solo i legami di quell’età sanno essere, fino a trasformarsi in un’unione escludente. Emulazione, sfida, rottura, delusione, tutti sentimenti che il regista tratteggia con maestria segnando ancor di più l’animo sfinito di Alice.
È molto bravo Costanzo a giocare con l’uso dei capitoli e del flashback in un tono e uno stile registico che strizza l’occhio ai film horror. Con un ritmo che non è mai spezzato, realizza un crescendo di situazioni che si legano e si spiegano nel gioco passato- presente sino a combaciare in due scene che condensano il senso dell’abbandono. Nel bagno di Viola, Alice chiede al suo nuovo amico la complicità nel cancellare dalla sua pelle il tatuaggio, traccia di un’amicizia che non c’è più. Nella seconda Mattia, portato a forza da Alice al ricevimento nuziale di Viola, le racconta l’inconfessabile abbandono della sua sorellina. Sono due predestinati, loro due. Due linee parallele che, contro le regole matematiche, deviano la loro direzione per incrociarsi.
Non sono molte le scene che raccontano l’evoluzione del loro rapporto, differentemente dal libro, quasi esclusivamente incentrato su di esso. Sono forti a sufficienza, però, per dare, seppur da lontano, l’idea del loro legame, non sempre maturo per decollare, ma pronto a ripartire da dove c’è un vuoto da colmare.
Chapeau agli attori. Luca Marinelli, alla sua prima prova, ma soprattutto ad Alba Rohrwacher, meravigliosa già ne L’uomo che verrà, qui fragile e candida al punto da rendere ancor più dolorose le ferite di Alice.