E triste quando si tradisce la natura di una storia, presi dalla tentazione di strafare. Succede a Kill me please, commedia grottesca del francese Olias Barco, premiato col Marco Aurelio al Festival di Roma.
Un film coraggioso e beckettiano nel suo saltare addosso alla speranza e non risparmiare niente e nessuno.
Un coraggio che fa abbandonare la sala agli stomachi deboli, ma non si prende la briga di premiare chi è rimasto con un po di verità.

Barco ha girato la sua opera seconda in poche settimane, con mezzi ristretti e una piccola troupe. Miracolosamente il pregio registico è fiorito su questi limiti e il cupissimo bianco e nero scelto per motivi tecnici sa raccontare un mondo asciugato di ogni bene, di ogni speranza, di ogni bellezza.

Il tema è il suicidio assistito, ma non si tratta della solita apologia, né si gracchiano ideologiche istanze di autodeterminazione. Al contrario. La domanda su cosa sia la dignità della vita rimane dolorosamente spalancata e raggiunge, almeno nella prima parte del film, una complessa radicalità.
Sinistro come lOverlook Hotel, svetta tra i boschi svizzeri la clinica del dottor Kruger che promette ai suicidi di tutto il mondo assistenza psicologica e una morte dolce e inesorabile.
Soprattutto pulita. Perché il sangue sporca, le viscere imbrattano, e Kruger, freddo e affabile come la scienza, vuole evitare ai suoi clienti un gesto barbarico.

La clinica, semi-segreta e odiata dagli abitanti delle cittadine limitrofe, riceve in realtà sovvenzioni statali perché si occupa di abbattere il costo sociale del suicidio. E qui cade la maschera compassionevole di Kruger e si svela la natura della dolce morte, un’altra istituzione di un sistema che mira all’efficienza e vuole eliminare da sé qualsiasi dramma. Perché il dramma è la dignità dell’uomo e un sistema che monetizza la morte vuole spogliare di questa dignità per manipolare meglio, comprare e vendere meglio. Per avere tutto sotto controllo.

I clienti sono usciti dal regno dell’assurdo, grotteschi personaggi di un quadro di Bosch.
C’è la rockstar asmatica e isterica, il sadico fissato con Rambo, il giocatore incallito che s’è venduto la moglie, uno schianto di ragazza bucherellata dalle iniezioni quotidiane per una rara patologia.

Un personaggio centrale, protagonista di sequenze di lirica bellezza, è il soprano strozzato, antica gloria rimasta quasi afona per un tumore, interpretata dal transessuale Zazie.
Tra i relitti di un’umanità tormentata si aggira una giovane detective della finanza, interrogando i pazienti sui lasciti testamentari alla clinica e lasciando intendere che c’è del marcio.

Per quanto la caratterizzazione dei personaggi sia riuscita e l’interazione tra pazzoidi porti a uno slapstick spassoso, pochi seguono nel corso della storia una loro logica interna e si risolvono spesso in macchiette, di cui intuiamo una profondità che ci è stata promessa e poi tolta.
Barco crea un mondo assurdo ma profondo, infernale ma affascinante e lo fa poi esplodere, lasciandoci solo i cocci da raccogliere.

L’accostamento tarantiniano dei toni (tragico, grottesco, pulp) non è gestito adeguatamente e i personaggi, come tanti binari morti, sono forzati in un finale che non è il loro, che non calza.
L’assurdo attacco esterno che irrompe nel microcosmo della clinica ha una sua profonda valenza metaforica, si scaglia contro un sistema che vorrebbe programmare tutto, controllare tutto e non ha neanche il potere di prevedere se si alzerà domani.

Tuttavia il surreale Trionfo della Morte che va in scena l’ultima mezz’ora non soddisfa le nostre attese, toglie al dolore qualsiasi dignità e lo fa senza grazia comica.
Un peccato per un film con buone premesse e la scorrettezza politica di porsi domande senza la fretta di rispondere subito, di tranquillizzare.
Nemmeno le note strozzate del canto del cigno finale, grottesco inno di un’umanità che si contorce nel fango, restituiscono a Kill me please la profondità cui, pure, poteva aspirare.