Il cinema di Paolo Sorrentino è sempre stato un cinema di personaggio. A partire dai due Antonio Pisapia de Luomo in più, suo esordio nel lungometraggio, passando per il Titta Di Girolamo de Le conseguenze dellamore e per linsopportabile Geremia De Geremei de Lamico di famiglia, siamo arrivato al Giulio Andreotti de Il divo, quello che a oggi rimane il suo lavoro più solido, ambizioso e riuscito. La trasferta americana del regista italiano cambia poco la nomenclatura del suo cinema che rimane ancorato più al personaggio che a unidea lineare di narrazione. Anche la storia di Cheyenne, ex rockstar che, dopo la morte del padre, parte con unidea di vendetta alla ricerca del nazista che umiliò il genitore nel campo di concentramento, è strutturata più come un accumulo continuo di avvenimenti, personaggi, situazioni e parole che non come un percorso lineare e ordinato.

Sorrentino affronta gli States con coraggio e sfrutta lon the road stravolgendo senza farsi notare il topos narrativo americano per eccellenza. Se il cinema di viaggio parte dal disordine aspirando a un ordine e a una pace esteriore e interiore, This must be the place parte dalla fastidiosa vita ordinata dellex rockstar (nella cui cucina cè scritto Cucina, se non è ordine questo) che trova sé stesso nella confusione di un viaggio male organizzato, quasi del tutto casuale, pieno di personaggi (non sempre apparentemente utili, qualcuno addirittura fine a sé stesso) e caleidoscopico nel catturare istantanee paesaggistiche (si va dalla sabbia alla neve).

La narrazione frammentata e quasi episodica serve a Sorrentino per permettere al suo personaggio di affrontare tutto quello che la vita gli ha sinora fatto schivare. Ogni tassello quindi deve essere visto come un nuovo passo (lento ed instabile) sulla strada di Cheyenne. This must be the place non si pone lobiettivo di spiegare tutto e di tracciare una linea conclusiva alle tante storie che si aprono durante i 118 minuti di durata, ma lascia coscientemente senza una conclusione gran parte delle storie che fanno parte del tessuto del complesso racconto del personaggio.

Una scelta coraggiosa quella di Sorrentino e dello sceneggiatore Umberto Contarello, che si rivela però vincente sempre nellottica di approfondimento psicologico di Cheyenne: la sua vita è piena di fantasmi, ectoplasmi e luoghi oscuri che non possono essere cancellati e dimenticati. Così le tante storie lasciate in sospeso diventano, anche nel tessuto narrativo, creature invisibili che continuano a essere presenti nella vita di Cheyenne.

Sean Penn affronta un personaggio la cui complessità emotiva era davvero difficile da restituire sul grande schermo. Lo fa aiutato da una maschera tragica e poetica (le maschere sono un’altra ossessione di Sorrentino, basti notare l’iconica presenza andreottiana) e da un grande lavoro introspettivo che cambia il suo modo di camminare, di parlare, forse anche di organizzare i pensieri. Sorrentino supporta il suo personaggio con una regia solida e sicura, capace di farsi affascinare dall’infinito orizzonte americano senza dimenticarsi di tratteggiare con inaspettata delicatezza un matrimonio colmo d’amore. Ad aiutarlo il sempre ottimo Luca Bigazzi alla Fotografia e una straordinaria colonna sonora composta da David Byrne (“This must be the place” è il titolo di una canzone dei suoi Talking Heads) che compare anche in un piccolo cameo.

Il divo continua a essere la miglior creatura di Sorrentino, ma questo This must be the place conferma ancora una volta il coraggio dell’autore italiano e la sua capacità di raccontare storie universali in maniera originale, con grande tecnica cinematografica e tanta partecipazione emotiva nei confronti dei personaggi che ci racconta.