Cavalcando un micro-fenomeno segno dell’insicurezza dei tempi, ossia persone comuni che si vestono come supereroi per combattere il male, Hollywood ha prodotto in pochi mesi tre film dai temi e dalle trame simili: Defendor di Peter Stebbings, trasmesso da Sky e licenziato in edizione home-video, Kick-Ass di Matthew Vaughn uscito in sala a primavera, e per ultimo Super, secondo film da regista dello sceneggiatore James Gunn (Slither), approdato in sala il 21 ottobre. Il film racconta la storia di Frank, uomo lievemente disturbato che dopo l’abbandono della moglie per uno spacciatore impazzisce del tutto, sente la voce divina e crea Saetta purpurea, un supereroe senza potere col quale ripulire la città dalla violenza; assieme all’assistente Saettina, una ragazzina con qualche disordine psichico, spargono violenza e morte nella convinzione di riparare ai torti, ma il vero obiettivo, chiaramente, è la riconquiesta della moglie di Frank.
Gunn, noto per il passato alla Troma – la casa di produzione americana specializzata in trash e serie z – punta molto alto scrivendo una sceneggiatura che con materiali bassi parli dell’America e della sua (in)sanità mentale: dentro ci mette l’ovvia derivazione fumettistica, il dramma psichiatrico, il melodramma deviato tra sesso, amore e amicizia instabile e il film d’azione violenta, mescolandoli con humour acre, ma anche sbandando nel finale. Rispetto al più celebre e apprezzato Kick-Ass, Super va più a fondo nel raccontare il lato nero del supereroe, o meglio la natura destabilizzante della sua essenza, scegliendo di concentrarsi sulla violenza che circonda i supereroi e svelando la follia e la disperazione esistenziale che nei comic-book o nei film da essi derivati è affrontata solo in parte: Frank è un sempliciotto (per non dire di peggio) che perde ogni contatto col mondo quando vede svanire gli unici momenti belli della sua vita, ossia quando ha sposato Sarah e quando ha indicato la direzione di un ladro a un poliziotto, con l’abbandono dell’amato per un debosciato che la narcotizza e non esita a farla prostituire; e l’assistente Libby è un’appassionata di fumetti con l’insana passione per la violenza e la morte.
Gunn costruisce il crescendo del loro rapporto e del film svelando la natura dissociata dei personaggi e del loro rapporto border-line, spiazzando e sconcertando di continuo lo spettatore mettendo in scena il paradossale limite tra crimine e giustizia, alternando titoli di testa animati in stile musical, follie demenziali come l’apparizione di Dio e del suo fumettistico profeta che gli aprono il cervello (letteralmente) e atti di violenza inconsulti e non edulcorati che disturbano in un contesto apparentemente manicheo di bene e male.
E in questo senso funziona bene che che per gran parte del film il coté eroico sia irriso: proprio perciò lascia perplessi un finale convenzionalmente spettacolare (come Kick-Ass, ma girato meno bene), in cui la violenza non è più disturbo mentale ma catarsi e dalla morte nasce un ritrovato bene, che sembra quasi negare l’interessante costruzione precedente.
Gunn adotta uno stile grezzo e sporco, fatto di macchina a mano, costumi casalinghi, trucchi artigianali e irresistibili, fondendo il gusto per un cinema cialtrone alla riflessione linguistica, ma fallisce nel momento in cui la sua parabola deve trovare un senso e riduce un film nero e cupo, molto duro a tratti, a semplice parodia. È un peccato, che però non rovina la sensazione di un film maturo e adulto che sa usare un immaginario forte e pre-costituito per rivelarne i buchi neri: esattamente come ha fatto con i protagonisti Rainn Wilson, noto attore di commedie e sitcom, ed Ellen Page, meglio nota come la leziosa Juno, presi e ribaltati, mostrati nella loro profonda, ma non per questo meno empatica, antipatia. Attraverso cui guardare i fumetti e i loro amanti con occhi un po’ diversi.