Non convince La Kryptonite nella borsa. O forse, considerato il talento di Cotroneo (cosceneggiatore in Mine Vaganti 2010 e Io sono lamore 2009) ci si sarebbe aspettati molto di più. Invece, il sapore che resta allo scorrere dei titoli di coda è di un amaro che sarebbe potuto essere dolce. Ecco, senza crudeltà, ma questo film è unoccasione persa. Perché la promessa che fa nella prima scena, quella di raccontare la storia attraverso il punto di vista di Peppino – dieci anni nella Napoli di metà anni Settanta – viene disattesa, almeno per la prima parte della pellicola. Che intende, questo sì, lo si coglie non solo a posteriori, fare un affresco di quei dannati anni Settanta visti, vissuti e, verrebbe da dire, subiti da Peppino, un paio di occhialoni rattoppati con lo scotch e tanti riccioli neri sulla testa. Un nerd, come lo chiameremmo oggi, sin da piccolo. Diverso, già solo per il fatto che senza motivo tutta la sua famiglia gli spiattella in faccia la sua non bellezza. In quegli anni in cui la libertà – è questo il tema del film – era il valore assoluto per cui combattere. Qui ricalcata con colore e una gustosa attenzione in molteplici sfaccettature. Lemancipazione femminile, il senso dellamore e della famiglia, il gusto di far uso di droghe come luogo in cui trovare – pardon -, essere, se stessi.

Ecco perché La kryptonite nella borsa è unoccasione mancata. Perché nella foga di raccontare tanto – e non si sta dicendo lo si faccia completamente male – Cotroneo perde di vista il punto di osservazione. Tanti i personaggi di questa famiglia in cui irrompe la modernità. Che da radio si trasforma in televisione, ma è ancora troppo timida per accettare la minigonna sulle gambe delle ragazze. Troppe le libertà da raccontare. Per cui accade che per la gran parte del film ci si sente ubriachi e disorientati a causa del pot-pourri di orizzonti esistenziali. Non uno sguardo unitario e unificatore – quello di Peppino -, ma frammenti di vite vissute sorseggiando linizio di una nuova libertà. Che per la mamma di Peppino, Rosaria (Valeria Golino) vuol dire ammalarsi di depressione. Lei, che nella sua vita ha conosciuto un solo uomo e si trova a vivere in casa con marito, figlio, genitori e fratelli.

Potremmo chiamarla ignoranza, la sua. Non con cattiveria, ma intesa come mancanza di esperienze che le abbiano dato una visuale più ampia sulla vita. Perché lei, in fondo, non è così forte. Ha dedicato a testa bassa anima e corpo alla famiglia perché questo insegnavano i suoi tempi. Ma ora che ha scoperto che lamore può essere anche tradimento, tutto crolla. Una donna schiacciata più o meno volontariamente tra le mura domestiche, abituata agli abbracci del marito Antonio (Luca Zingaretti), che ha un cuore solo, ma due amori distinti. Uno familiare, laltro come valvola di sfogo a una circostanza assodata.

Alla fine, però, spesso le pecore tornano all’ovile e Rosaria, che nel frattempo ha assaggiato il gusto della libertà, si gode il sapore della sua inaspettata emancipazione. Mentre sua sorella Titina (Cristiana Capotondi) di quella ribalta femminile vive il cuore pulsante del tempo. Tra libertà sessuale, confusa nell’affermazione della propria femminilità, e droghe. Ci sono anche Salvatore (Libero De Rienzo), zio fricchettone di Peppino, i nonni materni, saldamente ancorati ai propri ideali tradizionali che non si lasciano crepare dall’aria fresca della modernità. E Assunta (Monica Nappo), bruttina per davvero e destinata a restare zitella, se non fosse per quel pomeriggio di pioggia. E poi, finalmente, c’è Peppino. Che soffre per la depressione della madre e subisce l’incapacità del padre di mandare avanti la famiglia.

Per fortuna, però, Titina e Salvatore lo salvano immergendolo nel mare magnum degli anni Settanta, fra droghe e libertà di pensiero. Qui espressa dal volto di Gennaro (Vincenzo Semolato), supereroe casalingo e omosessuale, che, interprete della coscienza di Peppino, incita il bambino a essere ciò che si è, senza vergogna. Ecco un’altra ragione per cui La Kryptonite nella borsa è un’occasione rimasta lì, in soffitta. Sarebbe potuta essere un nuovo La prima cosa bella, al cui spessore e tono ambisce. Resta, invece, solo il racconto – a tratti superficiale e un po’ retorico – di un’epoca che non c’è più.