Ho deciso di riciclare un regalo che ho ricevuto. Non per risparmiare o per salvaguardare lambiente, che sarebbero comunque di per sé ottimi propositi. Ma per condividere con i lettori de Il Sussidiario il racconto che Giovanni Bastianini (copywriter? Esperto di comunicazione? Poeta?) mi ha voluto regalare per Natale, insieme a un piccolo sacchettino di mirra. La mirra non posso girarvela, ma il racconto sì, insieme alla dedica di Giovanni, che faccio completamente mia.
Viviamo tempi difficili, faticosi, ci sembra di non avere orizzonti e promesse. Facile scoraggiarsi, abbattersi, sentire i giorni come un peso da sopportare, non riuscire a vedere la luce oltre la gola stretta e scura che stiamo attraversando. Ci sembra sia giusto augurare sogni, in questa situazione, sogni di bellezza e di luce, di bene e di aria pulita, di giorni sereni.
Ci capiterà di scoprire, se non rinunceremo a darci da fare per realizzarli, che la bellezza e il bene molto spesso si nascondono, come la luce nelle notti senza luna, ma ci sono, non spariscono, sono vicino a noi, restano un dono che, anche piccolo come una brace sotto la cenere, come una fiammella troppo sola per fare fuoco, ciascuno può ritrovare, riaccendere e regalare a sua volta.
Con amicizia
Alberto Contri e Giovanni Bastianini
Non ci siamo mai incontrati, ma voi conoscete il mio nome. Sono Gaspare, uno di quelli che il giorno dellEpifania arrivano da Gesù Bambino per portargli in dono oro, incenso e mirra. La mirra, purtroppo, è lunica cosa che mi corrisponda nella storia che si è diffusa e che anche voi avete conosciuto: è vero, ho regalato la mia scorta di mirra a Gesù, meglio, a sua madre, quando arrivai a Betlemme. Per il resto, devo dir grazie ai miti, alle storie passate di bocca in bocca, ai cantori di racconti che tanto meno sapevano dei fatti che narravano tanti più particolari aggiungevano per intrigare il loro pubblico, Dio li benedica. Perché io non sono mai stato Re, non ho mai avuto un regno mio e anche il magio lo sono diventato solo per amicizia, non come Melchiorre e Baldassarre che Re e Magi lo erano davvero. Erano loro a tenermi con sé, a volermi quando si trovavano la notte a guardare il cielo, a scrutare le stelle, a interrogarsi sui grandi misteri del mondo con naso per aria e lo sguardo fisso. Loro sì, che erano astronomi e astrologi seri, addentro alle cose divine, capaci di scovare nellaria ciò che non vedevano sulla terra, profondi indagatori del mistero, che secondo loro era scritto lassù, disegnato da fili invisibili che collegavano, secondo disegni non facili da capire subito, alcune stelle ad alcune altre, scelte perché più luminose, a volte, altre volte perché per vicinanza parevano star bene insieme a dar forma al destino e ai sogni delluomo.
Mi volevano con loro perché… proprio questo è il punto, perché… beh, lo devo dire, dopo tanto tempo non faccio danno a svelare un segreto, perché i Re Magi facevano una gran fatica a sognare i sogni degli uomini, delle donne, dei bambini. Sì, bisognava spiegarglielo, cosa sogna un uomo, cosa sognano un bambino, una donna, un vecchio. Loro sapevano di divinità e di destini, sapevano tutto ciò che allora si poteva sapere sui mondi che sovrastano il nostro e lo dirigono, ma mettere insieme destini e vite di uomini normali, concreti, uomini e donne di tutti i giorni, quelli che si incontrano molto più spesso di giorno che di notte, mettere insieme grandi disegni divini e storie di persone, di famiglie, di popoli, sì, a far questo facevano molta fatica. Leggevano tra le stelle ciò che sarebbe accaduto dei regni e dei potenti, scovavano simpatie divine e antipatie, decifravano, tracciando rotte di stelle, percorsi e strade possibili per chi regnava sui popoli, ma lì si fermavano, il cielo diceva ben poco delle vite quotidiane, delle storie di amori, passioni, sofferenze, solitudini.
Non c’è nessuna costellazione in cielo con una stella sola, per forza loro non sapevano neppure che, sulla terra, la solitudine esiste. Loro erano sempre insieme a discutere, a scrutare, a decifrare, a confrontarsi, a tracciare segni e attribuire significati. C’erano, con loro due, altri magi, alcuni più vecchi, altri meno portati a star svegli la notte, ma tutti molto pronti a recarsi a corte di giorno, veloci di lingua, abili nel mescolare parole seducenti e interessanti anche se, alla fine, un po’ molto vuote di senso. Imparavano qualcosa da Melchiorre e Baldassarre, stando con loro qualche ora a sfidare il freddo della notte, poi si ritiravano con la scusa dell’età, o della famiglia, per poi arrivare per primi a corte a dire la loro sulle questioni del regno. Il loro sapere non serviva granché, il regno non prosperò per le loro sentenze, ma nessuno osava confessare di aver capito poco dalle loro parole. Erano solenni, ieratici, dicevano parole importanti e i dignitari e la corte intera alla fine si accontentavano della loro imponente e colorita presenza, dava lustro al potere senza mai metterlo in discussione. Del resto, si sapeva anche ai miei tempi, le guerre le hanno sempre vinte i soldati che le hanno combattute, non gli aruspici e gli indovini, che alla fine ogni volta proferivano avvertimenti stranamente allineati con le intenzioni di chi comandava, salvo aggiungere, dopo lunghe pause, che… chi voleva vincere doveva combattere con più forza, più determinazione, più coraggio degli altri. Come se cotanta saggezza fosse costata lunghe ed attente esplorazioni dei cieli!
Baldassarre e Melchiorre sapevano di queste vicende di corte, del ruolo pubblico così importante dei loro colleghi così poco propensi alla veglia ma in compenso prontissimi a riscuotere onori e prestigio con la farina di altri, ma lasciavano correre. Anzi forse erano quasi grati agli ambiziosi che contrabbandavano davanti ai potenti ciò che pensavano di aver capito dagli studi e dalle elucubrazioni dei due Magi rimasti nella memoria del mondo, perché, grazie alla loro piccola furbizia, alla loro ambizione, alla loro voglia di visibilità, nessuno veniva a disturbare i miei due amici lasciandoli liberi di studiare e proseguire le loro ricerche. A corte, pochi impegni, perché quando Baldassarre e Melchiorre parlavano dicevano ciò che dalle stelle avevano capito, senza preoccuparsi di come le loro parole sarebbero state accolte. Di solito, non erano le più gradite. Era così, allora.
Ma devo raccontarvi con onestà, adesso, perché io, senza aver né titoli, né sovranità, né sapienza pari alla loro, sono diventato il terzo tra i Re Magi rimasti nella memoria degli uomini. Il perché è presto detto: io ero diventato per Baldassarre e Melchiorre il loro sguardo sul mondo e sulle persone in carne e ossa. Loro guardavano il cielo per ore, io ero capace di guardare negli occhi le persone che incontravo, loro interrogavano le stelle, io non mi stancavo di stare ad ascoltare la gente che incontravo al mercato, per via, sotto un albero a cercar refrigerio dalla calura del giorno, al pozzo. Loro sapevano di disegni divini, io sapevo di storie di uomini, loro conoscevano i destini, io le speranze, i desideri, le sofferenze di quanti incontravo. Loro si affidavano alle profezie e ai vaticini, io avevo preso confidenza con le erbe, scoprendo un po’ alla volta il loro potere nel dare sollievo al dolore, di aiutare a guarire chi stava male nel corpo e nello spirito.
Li incontrai la prima volta proprio grazie alle mie erbe, una volta che Baldassarre, il più anziano, per essersi perso nelle sue osservazioni notturne troppo poco vestito era costretto a letto, raffreddato e tossicchioso, con le ossa rotte e i dolori reumatici che non lo lasciavano neppure respirare. Lo curai per diversi giorni, accompagnando i suoi miglioramenti con una quantità crescente di risposte che dovevo dare alle sue domande. Mi chiedeva come il Fato entrasse nella vita della gente normale, se i grandi disegni degli astri avevano spazio nei giorni delle persone normali, semplici, che lui non aveva mai incontrato, se si escludeva la piccola cerchia dei servi, delle ancelle e dei dignitari che lo accompagnavano. Io rispondevo come ero capace, sentendomi in soggezione. Gli dissi che il destino scritto nelle stelle non lo conosce nessuno, che nessuno ha un libro dove leggere cosa deve fare, come deve vivere, come può arrivare a sentirsi sereno, in pace con sé e con gli altri. Gli dissi proprio questo, gli parlai di pace, di serenità. Lui mi guardò stupito, obbiettando che non erano la serenità e la pace gli argomenti trattati dal destino, dai disegni degli astri, dalle antiche profezie, nelle quali si parla di regni, di guerre, di vittorie, di gloria, di favori degli dei, non certo di serenità e di pace.
Non so perché, ma gli dissi a quel punto che forse, in tutte le notti che aveva speso per leggere i cieli aveva trovato messaggi importanti per qualche potente, ma gli erano sfuggiti di sicuro i messaggi che potevano interessare tutti gli uomini. Come fai a saperlo, mi disse? L’ho sognato, risposi, e so che anche nei sogni di tutti coloro che ho incontrato, anche di quelli che stavano peggio, anche dei vecchi che chiedevano solo conforto e compagnia prima dell’ultimo viaggio c’è un gran desiderio di speranza e di consolazione, c’è la voglia sempre viva, anche nell’ultima notte, di una promessa di serenità e di pace.
Non disse più nulla, il vecchio Re Magio, ma nei tempi successivi mi mandò a chiamare molte volte la notte, per avermi vicino, a portata di voce, mentre scrutava le stelle, quando non era impegnato a dare lezioni ai giovani studenti che aspiravano a condividere il suo sapere per diventare Magi a loro volta. Senza distogliere lo sguardo dal cielo, mi interrogava, mi faceva domande, mi chiedeva dei sentimenti degli uomini, dei loro impulsi di bene e di male, dei desideri delle ragazze, dei giochi dei bambini. Mi chiedeva cosa c’era nei loro sguardi, nel fondo degli occhi di chi ama, di chi patisce, di chi odia, di chi ha paura, di chi è felice e di chi si è perso e si chiude in se stesso, di chi è tranquillo abbastanza per essere forte e di chi è prigioniero della sua debolezza che trasforma in boria, in protervia, in cattiveria. Ogni tanto, citava un mito, una profezia, un qualche racconto delle storie degli dei e mi chiedeva quanta felicità mi venisse dal conoscere fatti divini che fino ad allora non avevo mai udito. Mi era facile, fin troppo mi pareva, dimostrargli onestamente il mio stupore e la mia sorpresa, ed anche la mia gratitudine per le perle di conoscenza che mi affidava. Ma quanto alla felicità, con la stessa franchezza gli dicevo che essa era molto più vicina, per me, quando leggevo nello sguardo di un malato il guizzo di vita di un inizio di guarigione dovuto certo alla benevolenza degli dei ma anche alle mie cure a base di erbe e di estratti.
Queste nottate con Baldassarre mi piacquero molto, le sue domande, la sua considerazione per me mi parvero un balsamo alle tante ferite che avevo ricevuto, alle tante chiacchiere fatte su di me, alle mille malignità che sapevo esser raccontate su di me per la mia scienza della cura con le erbe così banale e concreta da non essere niente di serio per molti. Anche quelli che curavo, spesso, se non vedevano risultati immediati, cominciavano a dirmene di tutti i colori, a insultarmi, ciarlatano, imbroglione, profittatore, stregone incapace e pericoloso. Io mettevo a disposizione ciò che scoprivo e che sperimentavo su di me. Quello che mi faceva star bene, lo offrivo anche agli altri. Moltissimi me ne furono grati, molti, se avessero potuto, mi avrebbero fatto rinchiudere e condannare. Sentivo accumularsi, dentro di me, una sorta di sordo rancore, un peso di desideri negativi, sentivo risvegliarsi i miei istinti peggiori, quelli che si scatenano dentro gli uomini quando si sentono trattati ingiustamente. Mi sorprendevo a fare confronti, a guardare non con invidia, ma con astio, quelli che, con meno impegno e fatica sembravano portare a casa onori, benessere, stima e ricchezze.
Baldassarre mi faceva star bene, prendendo sul serio i miei pensieri e la mia conoscenza degli uomini, quando ero con lui sentivo che il mio rancore, un po’ alla volta, scemava, lasciandomi rivedere il mondo, e soprattutto le persone, in modo più chiaro, più limpido, oserei dire più vero. Anche Melchiorre, nei mesi successivi, si unì alle nostre conversazioni, o meglio allo strano dialogo fatto di domande da parte dei Magi e di risposte da parte mia. Le notti divennero notti di veglia, passate a sbrigare in qualche ora la fame di notizie da spendere a corte dei Magi più pigri, per poi cambiare registro subito dopo il loro ritirarsi. Quando restavamo noi tre, iniziavano le domande, con me a parlare a due illustri sapienti che non smettevano mai di guardar per aria senza degnarmi di uno sguardo, se non quando, per stanchezza e per sonno, smettevo di rispondere al loro interrogare. Avevo preso l’abitudine di bruciare mirra, quando ero coi Magi, perché il profumo che si alzava dal braciere sembrava aiutarmi ad essere più lucido, più pronto, più profondo. Anche i Magi mostrarono di gradire, dicevano che il profumo li aiutava ad essere più pronti a cogliere i significati scritti nel cielo, che solo chi ha confidenza con le cose dello spirito riesce a cogliere e interpretare.
Una notte, che ricordo in ogni dettaglio – saprei descrivere la posizione esatta di ogni costellazione, saprei riconoscere il rumore del vento, saprei dire ogni voce ed ogni suono di sentinelle ed animali che perforò il silenzio, quando accadde – Baldassarre e Melchiorre prima si chiamarono a vicenda, indicando una porzione di cielo verso sud, poi confabularono tra loro, poi tornarono a osservare stando immobili per un tempo che mi parve interminabile, fino a che alcune costellazioni, che avevo imparato a riconoscere, scomparvero all’orizzonte mentre altre, dalla parte opposta, si affacciavano alla vista. Alla fine si scambiarono uno sguardo, si abbracciarono a lungo e abbracciarono me, quasi tremando, piangendo di felicità, sospirando, sfregando la barba sulle mie spalle girando spesso la testa verso il punto di cielo che li aveva incantati. Smaltita un poco la concitazione, fu Melchiorre a svelarmi il segreto di quella imprevista e inusuale esplosione di emozioni: a forza di ascoltare le mie risposte e i miei racconti, avevano cominciato da tempo ad interrogare il cielo rivolgendo alle stelle le mie domande sulla pace, la serenità, la gioia degli uomini e quella notte avevano trovato un segno, una stella più mobile delle altre, strana, mai vista prima, che di sicuro doveva significare una risposta, una direzione di ricerca. Le notti successive furono concitate e straordinarie, i due Re sembravano posseduti da una forza davvero divina, stavano ore ed ore di notte a controllare il cielo cercando riscontri puntuali delle letture fatte durante il giorno e di giorno a raccogliere testi e documenti che illuminassero e dessero senso a ciò che la notte avevano visto.
Ai loro occhi, i disegni delle stelle prendevano forma, diventavano messaggio e invito. Ne ricavarono che c’era un viaggio da fare, per andare incontro ad un bambino che sarebbe stato Dio e uomo, avrebbe ricongiunto la terra e il cielo, avrebbe dato sostanza di terra ai sogni e leggerezza di sogno alla vita degli uomini. Si doveva andare a incontrarlo, seguendo un percorso che le profezie e gli astri avrebbero disegnato con chiarezza, a partire da quattro lune più in là. Nel frattempo, bisognava organizzare una carovana, organizzarsi per un viaggio di durata incerta, probabilmente lungo, portandosi dietro ciò che serviva per vivere a un bel gruppo di persone, le loro famiglie, i loro servi, alcuni tra i loro studenti che avevano chiesto di poterli seguire. Affidarono a me i preparativi, mentre loro si riunirono in segreto per decidere come presentarsi di fronte al bambino autore di tanta meraviglia cosmica e terrena. Sarebbe stato un potente, un Dio fatto uomo e un uomo con le sembianze di Dio. Avrebbero scoperto un luogo di eccezionale bellezza, l’unico degno di ospitare sulla terra un evento unico come l’incontro tra Dio e l’umanità. Lì avrebbero potuto presentarsi e ricevere illuminazione. Scelsero gli abiti più eleganti che avevano e doni adeguati alla circostanza: oro, per onorarne la potenza, ed incenso, per rendere omaggio alla sua divinità.
Quando me lo dissero, rimasi perplesso, stupito della loro sicurezza. Abituato ai loro entusiasmi conoscitivi, alla loro fiducia nelle stelle e negli astri, alla loro profonda convinzione che niente potesse succedere senza che una traccia celeste ne portasse annuncio e memoria, cercai di cogliere qualche particolare in più, senza arrampicarmi con forze che non erano mie sulle loro convinzioni, ma senza rinunciare a farmi un’idea sul realismo delle loro aspettative. Provai, l’ultima notte che passammo nel loro palazzo, a chiedere qualcosa di più sulla destinazione del viaggio e su ciò che si aspettavano di trovare. Ne ebbi in cambio gesti ampi delle braccia, un dito puntato verso il cielo, una mezza risposta sulla meta, “Ad Ovest, certamente”, ma poco di più.
Il giorno dopo ci mettemmo in marcia. Portai con me quel poco che avevo, una tunica pulita da indossare all’arrivo, la sacca con le erbe, gli infusi, gli estratti vegetali che, pensavo, sarebbero serviti in quell’avventura senza un preciso programma, che pareva più un esodo che un viaggio. Misi in un baule anche una scorta delle sostanze che più mi parvero utili, piccola precauzione di fronte a tanta incertezza. Almeno mia, visto che Melchiorre e Baldassarre sembravano ringiovaniti di vent’anni, sicuri nei movimenti, sempre restii a fermarsi per montare il campo e riposare nel giorno, visto che la mappa del viaggio era conservata nel cielo e tutta la carovana era appesa alle notti stellate. Fu un viaggio lungo, faticoso, a tratti spossante. I Re Magi avevano umore eccellente nelle notti pulite e terse, sembravano prigionieri ansiosi di liberazione quando le nuvole impedivano di seguire il tracciato che solo di notte appariva loro chiaro ed evidente.
Ci fermammo più volte, per il tempo e la stagione inclemente, ma bastava che le nuvole si aprissero anche solo di poco, che qualche stella facesse capolino per provocare immediate partenze, quasi vi fossero ritardi spaventosi da smaltire riducendo le soste e il riposo. Attraversammo pianure fertili, guadammo fiumi, ci trovammo a navigare tra le pietre e la sabbia di almeno due deserti, seguendo il ritmo altalenante dei cammelli e quello dei flauti e dei tamburi dei servi che con gli strumenti e i canti della nostra antica tradizione cercavano di restituire baldanza e vigoria all’andare quando il paesaggio che attraversavamo si ripresentava, a ogni ripartenza, troppo simile a quello dei giorni precedenti.
Attraversammo regni diversi, mandando ambascerie per assicurarci protezione e sicurezza attraversando le terre di popoli di cui avevo sentito parlare ma non avevo mai incontrato. A un certo punto del viaggio, divennero rari gli incontri con persone in grado di comunicare con noi. I Re, ogni tanto, nei templi e presso le corti che ci ospitarono, trovavano qualcuno con cui scambiare notizie, usando lingue diverse ma riferimenti a testi sacri e tradizioni conosciute da entrambi. Ma divennero sempre più rari, gli interlocutori possibili. Tra i servi, ogni tanto qualcuno d’improvviso sorrideva, riconoscendo la parlata di persone incontrate per via, riscoprendo dopo anni e anni di lontananza e di separazione di ricordare parole e frasi ascoltate da bambini, quando ancora la sorte non li aveva condotti a servizio dei Re. Il fortunato di turno diventava l’interprete dell’intera carovana, provvedeva a negoziare gli acquisti di ciò che serviva per continuare il viaggio e a spiegare che quello strano gruppo di persone in viaggio non aveva cattive intenzioni, anzi era in cammino verso un misterioso incontro dal quale dipendeva il bene dell’umanità. Diventava lui il capo fila del gruppo, incaricato di aiutare il nostro attraversamento nel breve tempo necessario a lasciarci alle spalle anche le terre del suo ritrovato popolo, per poi fermarsi a salutare festoso la carovana, grato della libertà che i Re regolarmente concedevano a chi scopriva di essere ritornato tra la sua gente.
Quando arrivammo tra i monti di Giuda accadde un disastro. Le alte montagne della regione stringevano il cielo, come se volessero rendere illeggibile una parte essenziale della mappa che i Re stavano con fatica e puntiglio seguendo. I riferimenti celesti che ci avevano portato fin lì parvero scomparire, i Magi passarono notti per ricostruire a memoria i segni del cielo che avrebbero permesso alla carovana di avanzare, ma parevano sconfitti dalla mancanza di spicchi di cielo a loro indispensabili per orientarsi e seguire il misterioso tracciato che doveva portarci alla meta. Il clima della carovana divenne tetro, ci si muoveva in silenzio, nessuno aveva l’ardire di parlare, tanto meno di far musica o cantare, si sentiva soltanto il rumore dei passi delle bestie e degli uomini, diventato lento, affaticato, incerto. I Magi, senza uno scampolo di segno utile dal cielo, facevano fatica ad alzare la testa, camminavano con lo sguardo alle pietre del suolo.
Arrivammo a fermarci di notte e a viaggiare di giorno. L’animazione, la festa, l’entusiasmo, le frenesia dell’incontro, l’attesa della meraviglia e del disvelamento del mistero inseguito in un percorso così lungo: tutto scomparso, azzerato, spento, i pellegrini del mistero, i cercatori dell’uomo Dio e del Dio uomo trasformati in un gruppo di dispersi, di camminatori senza direzione, di profughi di un sogno interrotto. Si giunse così, con l’amaro in bocca, fino a Gerusalemme, la grande città, innalzata sulle colline, spendente d’ori e di luci. Lì, di nuovo, i Re incontrarono il signore del posto e la sua corte, dove non c’erano astrologi in servizio ma esperti di profezie e di scritture. Parlando con loro, con le incertezze di un dialogo reso possibile da uno degli ultimi servi rimasti con noi – un pastore, uno non certo abituato a maneggiare e rendere, in due lingue diverse, il linguaggio rarefatto e difficile della profezia e della conoscenza dei fatti divini – vennero fuori antiche profezie di quel popolo, che parlavano di un bambino divino, di una maternità inaspettata, dell’attesa di secoli e secoli della sua nascita, ma niente che potesse far pensare ad un evento annunciato da una carta del cielo, da un muoversi di astri, di stelle in viaggio nello spazio siderale per guidare gli uomini sulle tracce del bimbo miracoloso.
Stanco, sconsolato, perplesso e per di più ormai a corto di medicamenti e di erbe, per il gran daffare avuto in giorni e giorni di viaggio a curare, ad aiutare, a sostenere i viaggiatori e lenire le tante infermità che un lungo viaggio comporta, mentre ancora una volta i Re si incontravano con i saggi del tempio e della corte, mi rifugiai in una stalla dove il caldo delle bestie e la morbidezza del fieno mi promettevano una notte più tranquilla di altre. Tanto, vegliando, non avrei capito niente di ciò che i Re miei amici e i loro interlocutori stavo discutendo animatamente. Mi addormentai, sperando che il riposo della notte avesse qualche suggerimento da darmi. Sognai, quella volta, il più bel sogno della mia vita. Quando mi svegliai, di primo mattino, sapevo, per una volta sapevo, avevo chiara in mente la visione di ciò che mi aveva portato fin lì. Corsi a cercare Baldassarre e Melchiorre, che avevano a fatica, dopo ore di confronto e discussione con i saggi del popolo ebreo, carpito il nome di un villaggio, più avanti, sui monti, Betlemme. Dissi loro di ripartire al più presto e di preparasi a sorprese incredibili, dissi loro che eravamo vicini alla meta, che avremmo ritrovato le carte del cielo dopo aver scavalcato la prima montagna dopo la grande città, che dovevano prepararsi ad un incontro che mai nessuna profezia, nessun segno di stelle aveva mai neanche potuto immaginare. Mi guardarono stupiti e sorpresi e fu soltanto la lunga amicizia che si era stabilita tra noi che li condusse ad aver fiducia, ad ordinare la partenza, a riprendere il viaggio, con me davanti, esperto di erbe e loro, esperti di cielo, di cose divine e di destini, dietro a seguire i miei passi quasi di corsa, per quanta ne era permessa da tanta gente ormai stanca e dagli animali che di stanchezza e di patimento avevano avuto dosi altrettanto abbondanti.
Accadde come avevo sognato, il cielo si aprì agli occhi dei Re dopo che superammo la prima alta collina fuori dalla grande città, d’improvviso la carovana ritrovò lo slancio e la frenesia dei primi giorni del nostro andare. Arrivammo al tramonto nel villaggio di Betlemme, immediatamente circondati da tutti gli abitanti, che senza bisogno di chiedere e dire, quasi ci aspettassero da tempo, ci portarono, chi correndo, chi incitandoci, chi camminando con noi davanti alla porta di una minuscola casa. I Re si fermarono nella via, giusto il tempo per indossare i vestiti della festa, le insegne del loro potere e del loro sapere ed estrarre dai loro scrigni i doni che fin lì avevano portato. Fino a quel punto, se erano stupiti della normalità, della assoluta modestia, direi della povertà del posto dove eravamo arrivati, non avevano dato nessun segno di confondimento o di sorpresa, ma quando tra le voci concitate dei nostri accompagnatori venne aperta la porta e si affacciò un uomo a incontrare i nuovi arrivati, facendosi da parte sulla soglia lasciando intravedere tra le mura delle minuscola casa la sagoma di una donna con un bimbo in braccio, rimasero interdetti e fermi sulla via, spaesati, del tutto insicuri.
Mi venne da sorridere, facendo fatica a trattenermi dal trasformare in riso schietto il buonumore che mi aveva invaso. Ricordai che aspettavano di trovarsi in un luogo di bellezza sublime, di solennità, di fasto adeguato all’incontro con Dio. Certo lì, in quella sera, a Betlemme, l’ambiente era all’opposto delle loro attese e aspettative. Mi feci avanti, ricordando ai Magi miei amici che li avevo avvisati di prepararsi a qualcosa di inaudito, di difficilmente credibile, di stupefacente: gli astri, il cielo, le stelle, le carte consultate, la sapienza conosciuta erano serviti a portare i Re davanti ad un bimbo, ad una madre giovanissima e bellissima, a un padre che sulla porta di una casa più che povera, misera, era chiaramente a disagio di fronte alla sontuosità delle vesti e alla solennità dei visitatori.
Lì, proprio lì, stava il mistero indagato nelle notti insonni, studiato, cercato e poi inseguito in un viaggio che pareva non dovesse mai finire: un bimbo, una madre, un padre, una famiglia poverissima, dentro una casa di fortuna, nel grande silenzio creato dall’imbarazzo dei visitatori e dalla soggezione degli abitanti del villaggio. Per un momento dubitai anch’io, forte fino a quel punto soltanto di un sogno. Accennai al padre la richiesta di entrare, ad un suo gesto varcai la soglia della stanza e mi avvicinai alla madre e al bambino e li guardai. No, più esattamente io alzai solo lo sguardo, ma furono la madre e il bimbo a guardare me. Mi sentii come trapassato da quegli sguardi, dalla loro intensità. Mi sentii osservato, quasi rovistato nel profondo, e subito dopo mi sentii come a casa mia, tra persone che avevo conosciuto da sempre, che da sempre sembravano aspettarmi, una madre giovanissima e un bimbo di pochi giorni che avevano rotto il confine tra il tempo di ogni giorno e il sempre dei sogni e dei desideri degli uomini, per dirmi sei arrivato, questa è la fine del viaggio.
Furono il mio sospiro e la mia commozione a dare certezza anche ai Re Magi, che, senza aver capito, senza darsi il tempo di studiare e scrutare il cielo a cercare sicurezze divine, entrarono dopo di me e deposero ai piedi del bimbo e di sua madre i loro doni di oro e di incenso. Myriam, la giovane madre si chiamava così, ringraziò dei doni con un sorriso bellissimo, senza dire parola. Joseph, il padre, li prese e li mise da parte, il bimbo si mise a fissare i Re chinatisi davanti a lui, finché sia Baldassarre che Melchiorre parvero capire all’improvviso che davvero lì li aveva portati tutto il loro vegliare, studiare, interrogare le stelle, davanti ad un bimbo che non pareva Dio, ad un Dio che davvero sembrava in tutto e per tutto soltanto un bambino. Solo gli occhi, soltanto gli occhi dicevano di lui qualcosa di più, dicevano di un mistero appena iniziato, di una vita che sarebbe stata densa, colma, stipata di vita. Ma, pensai tra me e me, non poteva che nascere così, da un bambino, lo svelamento del mistero di Dio e dell’uomo, dallo sguardo di una madre, dalla vigile presenza di un padre.
Se i sapienti e i saggi erano arrivati a intuire che un bimbo avrebbe ridisegnato la storia degli uomini e la storia di Dio, ascoltando le voci di profeti e il silenzio del deserto, ebbene, quel giorno, quel bimbo erano la conferma che il loro ascolto e la loro ricerca erano arrivati vicini alla verità. Il mistero di Dio non poteva essere altrove, nessun tempio, nessuna cerimonia, nessun luogo sacro, nessun segno celeste avrebbe potuto contenerlo più dello sguardo di quel bimbo in braccio a sua madre in una minuscola casa di Betlemme in Giudea.
Quasi incantato, mi avvicinai di nuovo, presi dalla mia bisaccia qualche grano di mirra e lo offrii alla madre. Mi parve di capire che Myriam non sapeva cosa fossero. Li gettai sul piccolo fuoco che faticava a tener fuori il freddo della notte ormai calata sul villaggio, sulla casa, su di noi. Si sentì subito il profumo inconfondibile della resina che avevo portato con me, il bimbo allora sorrise e mi guardò di nuovo, allungando la manina verso la mia bisaccia. Mi sfilai la bisaccia e la posai ai piedi di Myriam, che, sorridendomi ancora una volta, mi fece capire che aveva apprezzato il mio gesto, lo aveva capito, che aveva imparato tutto su di me, che avevo un posto nel suo cuore e in quello del bambino. Mi sentii come svuotato di me e pieno dell’affetto che veniva da madre e figlio, un affetto, una benevolenza, un amore che mi riempiva, rendendomi sicuro della rivelazione che mi era stata donata in quel posto inaspettato e così poco adatto, secondo i criteri di noi uomini, a contenere segreti che abbracciano la vita di ciascuno.
Il mio dono era adatto, forse dei tre il più adatto, ad accompagnare la storia di un uomo che doveva crescere ed affrontare la vita, svelando a sé e al mondo il mistero della pace, della gioia e delle serenità, passando attraverso le pene di tutti, pagando di persona, come tutti, il prezzo esoso che è chiesto a chi è vero. Myriam, Maria come la chiamiamo oggi, sono sicuro che usò per sé e per suo figlio la mirra, imparando ad usarla per curare il suo bimbo Gesù e se stessa e, come dicono i saggi, aiutarsi a conservare chiara e netta, bruciandone qualche grano per sprigionare profumo, la memoria dei fatti dello spirito e dell’anima, dell’amore e dei buoni pensieri, del perdono ricevuto e donato, del mistero che sembra lontano ed è a portata di tutti. Hanno detto, dopo, che il mio dono era simbolo di sofferenza e di morte. No, non era un simbolo, era soltanto il dono di ciò che avevo, che conoscevo essere utile a vivere, era un dono che avrebbe lenito la sofferenza anche di Dio, visto che aveva deciso di essere uomo.
Pensai, uscendo da quella casa alleggerito di ogni rancore, che mai avrei provato una gioia più grande, che mai mi sarei ritrovato più vicino alla verità, che mai più avrei guardato Dio negli occhi.
Mi sbagliavo: ho ritrovato lo sguardo di Dio in tutti gli occhi di bambino che ho fissato, in tutti gli occhi delle madri cui ho sorriso, di tutti gli uomini che mi hanno accettato nel loro sguardo dopo essersi accertati che, nel mio, non c’era astio ma attenzione e apertura.
Per questo regalo mirra anche a voi, che come me non siete mai stati né Re né Magi, ma che cercando pace, serenità e gioia, per voi e per gli altri che incontrate, come me potete diventarlo, guardando a voi, agli altri, al futuro con speranza, con disponibilità, con attenzione e, se vi riesce, qualche volta con simpatia, senza paura ma con stupore, con desiderio di festa e di bene. In poche parole, con gli occhi di Dio.
Vostro,
Gaspare.