Il regista John Cameron Mitchell, per il suo Rabbit hole, utilizza lespediente narrativo del celebre romanzo di Lewis Carrol, per descriverci la dimensione surreale del lutto. La quotidianità coniugale di Becca e Howie Corbett, esemplare famiglia americana borghese, viene tragicamente stravolta dalla morte del figlioletto di quattro anni. Mitchell, pacatamente, proietta, a otto mesi dallevento tragico, lo sguardo discreto dello spettatore nellintimità di coppia violata dal lutto, in luoghi familiari e perfettamente ordinati a dispetto del travaglio interiore vissuto dai protagonisti.

Una eccellente Nicole Kidman (candidata allOscar come migliore attrice protagonista, nonché coproduttrice del film per la Blossom films), nel ruolo di Becca, è il volto quasi immobile del dolore. In un drammatico percorso interiore, che lascia però spazio a spunti dironia pungente che strappano perfino qualche risata allo spettatore, rifiuta i ridicoli rimedi delle terapie di gruppo alle quali il marito Howie (che ha il volto di un Aaron Eckhart alla sua migliore interpretazione, dopo Thank you for smoking) si appassiona, ignora i suoi timidi approcci animati dal sincero e disperato tentativo di riportare la vita di coppia alla normalità. Lincomunicabilità di Becca e Howie non segna, tuttavia, una distanza incolmabile: entrambi percorrono la strada del dolore, ma sono strade diverse, destinate in un modo o nellaltro a ritrovarsi.

Mentre Howie sembra farsi ammaliare dal pensiero di un nuovo flirt, e di una nuova giovinezza, con Gabby (Sandra Oh), conosciuta alle terapie di gruppo, salvo poi abbandonare lidea, Becca partecipa, non senza disagi, all’inaspettata gravidanza della scapestrata sorella minore Izzy (Tammy Blanchard). Quella di Becca è una famiglia composta da sole donne, poco convenzionale e per ciò stesso divertente; intensa, come la presenza di una madre (Nat, interpretata da Dianne Weist) che, in modo maldestro ma autentico, indica a Becca una visione del lutto proiettata al futuro.

Le due donne non sono solo due madri, anche Nat ha vissuto e continua a vivere il dramma della morte (avvenuta in circostanze del tutto diverse) del figlio Arthur (“è come un mattone che ti porti sempre in tasca. A volte non ci fai caso e te ne dimentichi, ma poi c’è sempre qualcosa che ti spinge e rimetterti la mano in tasca”).

 

Ma non ci sono solo Howie, Izzy e Nat nel percorso di Becca. C’è anche Jason (Miles Teller, al suo debutto), l’adolescente con la passione per i fumetti coinvolto nel dramma della morte del piccolo, a cui la vita è cambiata. La donna gli si avvicina senza rabbia, ma con tante domande. Jason la guida alla scoperta degli universi paralleli: ci sono altre vite che stiamo vivendo oltre questa, ci sono vite in cui siamo felici e dove le cose stanno andando diversamente.

 

L’intera narrazione, così come il finale, è misurata, realistica e coerente con l’intenzione di non rendere banale una storia che avrebbe potuto facilmente cedere al fascino dell’happy ending. Becca e Howie, ormai consapevoli dell’ineliminabilità della sofferenza, si ricongiungono in un percorso comune.

 

(Michela Maisti