Dopo lesplosione del genere urban fantasy sulla scia di Twilight, si potrebbe coniare un nuovo termine: urban sci-fi, ovvero la fantascienza che irrompe nella realtà contemporanea. Io sono il numero quattro, adattamento cinematografico del romanzo di Pittacus Lore (pseudonimo sotto cui si celano gli scrittori James Frey e Jobie Hughes), prodotto da Michael Bay (il regista di Armageddon), è il tentativo hollywoodiano di creare una nuova saga ambientata nel mondo degli adolescenti di oggi, in cui a vampiri & co si sostituiscono i cari, vecchi alieni provenienti da altri pianeti. Il risultato è un mix tra Smallville (la serie tv americana dedicata alladolescenza di Clark Kent) e Twilight, che unisce atmosfere anni Novanta ed effetti speciali in stile videogame.

La fantascienza che irrompe nella realtà quotidiana degli adolescenti moderni non è una novità al cinema. Abbiamo una lunga tradizione di supereroi e alieni che finiscono nelle high-school americane, da Roswell alla saga di Spiderman: il pubblico giovane è intrigato dagli eroi con superpoteri e super responsabilità, dalle storie damore impossibili ed eterne e dagli scontri con i cattivi a tutto tondo.

Limpresa più ardua nellaffrontare questo genere è gestire le emozioni, che spesso sono sacrificate in nome degli effetti speciali e delle battaglie contro mostri e nemici. Io sono il numero quattro tenta di aggirare lostacolo ripescando il romanticismo in stile Twilight e provando a inserirlo nella storia, ma il risultato non convince fino in fondo. Anche se il film è un prodotto commerciale ben confezionato, con bravi interpreti, bei paesaggi e ritmo action, fatica a emozionare e, alla fine, dà la sensazione di non aver detto niente di nuovo.

La storia si apre su Danny, un teenager costretto a cambiare città (come Bella di Twilight) e identità, trasformandosi in John Smith, biondo outsider in un liceo dellOhio. Qui si innamora della bella e sensibile fotografa Sarah, alla quale però deve nascondere un segreto: lui non è un essere umano ma un alieno fuggito da un altro pianeta, dove gli spietati Mogadoriani hanno sterminato la sua gente.

Come i vampiri della Meyer, deve passare inosservato (cosa che ovviamente non farà) e tenersi alla larga da ogni occasione sociale, altrimenti sarà ucciso. John, infatti, è il quarto di nove superstiti, con poteri eccezionali in grado di salvare la Terra e per questo ricercati dal nemico, che vuole eliminarli e conquistare anche il nostro pianeta. Tra risse con i bulli e momenti romantici, John deve imparare a controllare i suoi poteri con l’aiuto del suo mentore, che l’ha seguito sulla Terra per proteggerlo, guidarlo e ricordargli le sue responsabilità quando John cede alla tentazione di comportarsi da normale adolescente.

 

La storia di formazione inserita nel contesto fantasy/sci-fi funziona dai tempi di Star Wars, perché la metafora del superpotere come talento individuale, che bisogna scoprire e mettere a frutto, piace al pubblico giovane – soprattutto adesso che nessuno sembra più predestinato a niente. Siamo bombardati dal ritornello che i giovani cercano le scorciatoie per il successo, che il romanticismo non esiste più, eppure letteratura e cinema vivono sulle storie di ragazzi che credono nell’amore eterno, controllano i propri istinti e accettano la responsabilità di salvare il mondo. C’è bisogno di supereroi, ora più che mai, per salvare gli ideali e dare speranza nel futuro.

 

Peccato che, tra battaglie a effetti super speciali contro improbabili alieni (francamente un po’ ridicoli, brutti, rasati e tatuati) e un romanticismo più da serie tv che da grande schermo, Io sono il numero quattro non riesca ad arrivare al cuore della storia. Pesca da tutti i modelli possibili, ma così facendo non trova una sua personalità. È nata una nuova saga, ma difficilmente “bucherà” lo schermo: il finale aperto non basta a convincere lo spettatore ad aspettare con ansia il seguito.