Dopo lo straordinario successo di The Millionaire, che vinse 8 Oscar ed è diventato il film indipendente di maggior successo al mondo, torna il regista scozzese Danny Boyle con un nuovo film, 127 ore (in uscita oggi), che come spesso nel suo cinema è una sfida e un cambiamento. Perché cambia di nuovo genere e Boyle ne ha trattati molti si pone come nuovo tentativo di filmare l’infilmabile, di entrare in contatto con l’estremo del cinema.



L’intreccio s’ispira alla vera storia di Aron Ralston, amante degli sport estremi in particolare quelli di montagna, che durante una gita solitaria nel canyon resta vittima di un crollo: una roccia s’incastra tra le pareti e gli blocca la mano. E Aron nelle profondità della valle, per il tempo del titolo, deve cercare di liberarsi e sopravvivere. Ce la farà e non è spoiler, basta cercare su Internet , ma non a buon mercato. L’avventura terribile di Ralston diventa per Boyle l’occasione di dare il massimo movimento e ritmo a un racconto immobile, senza ricercare la claustrofobia come in Buried ma usando la sceneggiatura scritta assieme al fidato Simon Beaufoy per riflettere sui limiti dell’uomo e del cinema.
Una celebrazione dello spirito umano, del confronto con la natura estrema, ma anche dei complessi legami tra l’essere umano, il proprio corpo e la propria mente che Boyle prende a prestito per raccontare una parabola umana attraverso una parabola delle immagini: grazie infatti alla perfetta fotografia in digitale di Anthony Dod Mantle e Enrique Chediak e al montaggio di Jon Harris, 127 ore sperimenta formati, tecniche di ripresa, angoli d’inquadratura per rendere visiva un’esperienza che spazia dall’immensamente grande all’immensamente piccolo.



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Un film che in un certo senso aggredisce lo spettatore, lo stimola e lo coinvolge continuamente in quella accensione dei sensi che è la base dello sport estremo (e del cinema contemporaneo) e che fa un canto all’essere umano attraverso l’esplosione tecnologica; più che un paradosso è parte della poetica di Boyle che cambia rotta, saggiamente, dopo il sopravvalutato film precedente e torna a rischiare, magari lasciandosi prendere la mano.

 

Ma ha avuto ragione: il film è stato nominato a 3 Golden Globes, tra cui miglior film e regia, e ha  ricevuto sei nomination all’Oscar tra cui quella per il miglior film e per il miglior attore protagonista. A cui si aggiunge il ruolo di conduttore della cerimonia che verrà svolto proprio dal protagonista James Franco, interprete di un grande tour de force nervoso prima che fisico. Incredibilmente umano.



 

(Emanuele Rauco)