Il cinema giapponese in Italia è un pò come un iceberg. Ha una piccola punta che spunta fuori dallacqua e in cui è inevitabile incagliarsi, una piccola punta fatta di grandi autori come Akira Kurosawa, Yasujiro Ozu e il più recente Takeshi Kitano.

Ma come ogni iceberg, anche quello del cinema nipponico nasconde sotto quella piccola punta, un imponente blocco di ghiaccio in cui sono situati autori meno celebri a livello mondiale, ma altrettanto importanti e coraggiosi quanto quelli già citati. In questo grande blocco ghiacciato potremmo situare Shuji Terayama, Shohei Imamura e, non per ultimo, lenfant terrible del cinema nipponico, Takashi Miike.

Per venire incontro a chi sente nominare per la prima volta il nome di Miike, vi sottopongo qualche dato. Takashi Miike ha cinquantanni e ha diretto (a oggi) ottantatre film. Giusto per fare un confronto, Woody Allen, uno dei più prolifici autori occidentiali, alleta di settantacinque anni, ha diretto solo quarantasei film.

Takashi Miike nel 2001 non solo ha diretto qualcosa come sette film, ma tra questi sette ha sfornato due dei suoi film più rappresentativi, Ichi the killer (grande fonte di ispirazione per il cinema americano, da Kill Bill – Vol. 1 al Joker de Il cavaliere oscuro) e Visitor Q, originale e allucinato punto di vista sulla famiglia giapponese (uno dei temi ricorrenti nel suo cinema).

Potremmo stare qui intere giornate se volessimo incasellare Miike in un genere ben preciso: nella sua sterminata filmografia, ha affrontato tutti i generi, dallhorror al film drammatico, dallo yakuza-movie al cinema per ragazzi, dalla commedia musicale al cinema supereroistico, dalla fantascienza al dramma storico, sino a toccare anche il western. La cosa straordinaria di Miike è che, pur avendo girato film completamente diversi uno dallaltro, ha sempre mantenuto una coerenza tematica e un approccio registico tale da renderlo un autore fatto e finito, nonostante il ritmo forsennato delle sue regie (comunque calato negli ultimi tempi) lo possa portare a essere etichettato, nemmeno come regista commerciale, ma addirittura come regista di b-movie.

La stessa coerenza che si trova anche in Yattaman, film del 2009 (ma che arriva in Italia con due anni di ritardo) tratto dalla celebre serie animata creata da Tatsuo Yoshida e passata anche in Italia a partire dagli anni Ottanta. Portare sul grande schermo l’adattamento in live-action di un cartone animato è sempre impresa ardua, basti vedere il recente fallimento di Dragonball evolution, il cui maggior difetto era quello di prendersi troppo sul serio e cercare di portare le avventure dell’adolescente Goku in un contesto realistico.

 

Miike compie una scelta diametralmente opposta e il suo Yattaman non è altro che un cartone animato girato con attori. Il film è quindi un universo coloratissimo e anarchico, in cui il materiale che regna sovrano (dalle scenografie, ai costumi e ai robottoni) è della plastica il cui effetto lucido è ulteriormente amplificato da una fotografia satura, giocata sui colori pastello e che tende a eliminare sfumature e mezzi toni per prediligere delle tinte unite. Tutto nel film è esasperato, dalle sequenze d’azione alla storia d’amore tra i due protagonisti, e di conseguenza anche la recitazione è straordinariamente manieristica ed eccessiva nei suoi toni.

 

Poi si può imputare al film qualche lungaggine di troppo e l’ingenua demenzialità che regna sovrana, ma come si fa a non amare un autore così coraggioso, capace di portare alle estreme conseguenze anche un film mainstream come questo?