Giuliano Ferrara ha iniziato ieri sera su Raiuno Qui Radio Londra. La formula riprende fedelmente il programma che lo stesso giornalista registrava negli anni Novanta dagli studi Mediaset del Centro Palatino di Roma e che Canale 5 prima e Italia Uno poi trasmettevano più o meno nello stesso orario.

Cè la medesima enorme scrivania semovente, cè il richiamo alla storica trasmissione della Bbc, comprese le quattro battute di tamburo (che sono poi lincipit di una sinfonia di Beethoven), cè il clima un po retrò – abat-jour verdi, finta radica, nostalgica scritta luminosa On Air.

Ferrara è cambiato poco nellaspetto esteriore (a Mediaset portava i capelli lunghi), ma molto nellimmaginario collettivo. Qualunque cosa si voglia pensare delle sue ruggenti battaglie, è innegabile che egli oggi sia uno dei più intelligenti commentatori sulla scena italiana. Molto diverso dallessere un mero agit prop del Cavaliere, come ingenerosamente lo dipingono alcuni blogger.

I programmi televisivi vivono di semplici trovate. Nel suo, quando ha finito di parlare, Ferrara schiaccia un pulsante nascosto per far ripartire la postazione rotante su cui è seduto. A inizio puntata, invece, si fa trasportare immobile. Il conduttore aspetta a parlare che si fermi la giostra mediatica. In effetti, parole pesanti esigerebbero un contesto non dico di silenzio, ma almeno di attenzione.

Ma alle 20:30 la bora mediatica soffia fredda e tesa al massimo della sua forza e sbarcare nelle case degli italiani da bordo della rete ammiraglia, con un editoriale di 5 minuti, tutto in primo piano, non è impresa facile. Vedremo come evolverà. Intanto, la prima puntata ha preso lo spunto dalla tragedia del Giappone e si è incardinata sul tema della paura. Ma per commentare i contenuti della trasmissione bisognerà attendere qualche giorno.

 

Si può invece approfittarne per una riflessione più generale sul sistema dei media. Quello di Ferrara è un ulteriore spazio di approfondimento televisivo. Da alcuni mesi i talk show di politica raggiungono ascolti altissimi, anche sulle reti minori. Fazio, Chiambretti, Annunziata moltiplicano le interviste “one to one”. Saviano è andato ad aggiungersi all’albo dei monologhisti di successo: Celentano, Benigni, Paolini. Programmi di cronaca come “Quarto Grado” e “Chi l’ha visto?” viaggiano ben sopra le medie delle rispettive reti.

 

Di cosa è segno questa grande fame di parola? È solo un’urgenza dei responsabili dei palinsesti o si radica in un bisogno vero degli spettatori? Una spiegazione potrebbe essere il fatto che i programmi di parola sono sovente programmi di polemica e il conflitto, lo insegnava già Aristotele, è un meccanismo essenziale di ogni narrazione. Ma un’altra spiegazione potrebbe essere che la fame di discorso nasconde una fame di realtà.

Insieme alle finestre digitali sul mondo, si moltiplica il sospetto che la vita non sia come il sistema dei media la riesce a dipingere. E questo per quanti lavorano nella comunicazione, come chi scrive, è un monito severo. Con la digitalizzazione, le voci che si contendono la piazza sono diventate centinaia. Nessuno potrebbe mai udirle tutte.

 

Certo, si può recuperare, grazie a internet. Ad esempio, il video della prima puntata di Ferrara era visibile su You Tube pochi minuti dopo la sua emissione. Ma alla fine miliardi di parole finiscono al vento. In un contesto così caotico occorrono parole che spieghino la realtà, che ne rivelino il senso vero, perché nel caleidoscopio digitale c’è il rischio che le mille luci accese nelle nostre sere non illuminino, ma accechino.

 

Occorrono parole che siano legate all’esperienza, che nascano da un’esperienza. In fondo, la questione è l’autorevolezza di chi parla. La parola si muta da chiacchiera in messaggio (stavo per scrivere verbo…) per la statura di chi la pronuncia. È la sfida che attende Ferrara e ciascuno di noi.