Arriva un momento nella vita, in cui – volenti o nolenti – ci si pone la fatidica domanda: chi sono diventato? Cosa ne è stato dei sogni di quando ero bambino? Yann Samuell, il regista di Carissima Me, prova a rispondere a questa domanda con una commedia non banale, che mette a confronto una quarantenne in carriera (Sophie Marceau) con la propria infanzia, rivissuta attraverso le lettere scritte a sette anni e indirizzate a se stessa.
Marguerite è una manager indaffarata, amata e temuta, che ha tutto (successo, denaro, una bella casa) e non è nemmeno single, visto che sta con un collega amante dei bambini. Si ispira alle grandi donne del Novecento quando deve affrontare la rivale vipera, lassistente ansioso e gli imprevisti della vita, e si fa chiamare Margaret per darsi un tono nellinsidioso mondo degli affari.
Per il suo quarantesimo compleanno, però, riceve una sorpresa inaspettata e non molto gradita: un vecchio notaio di provincia le consegna un pacco pieno di lettere scritte da lei stessa a sette anni, letà della ragione, e indirizzate alla donna adulta che sarebbe diventata. Comincia così un viaggio a ritroso nel mondo di Marguerite, fatto di abbandoni, delusioni, dolori, ma anche un grande amore e, soprattutto, grandi sogni, che naturalmente non si sono realizzati nel modo previsto.
La donna oscilla tra il desiderio di lasciare l’infanzia chiusa in un cassetto e non tornare più indietro, come si è sempre ripromessa, e la curiosità di riscoprire quella bambina capace di scrivere parole di una sconcertante onestà. Alla fine vince lei, la Marguerite di sette anni, e la manager che aveva tutto ritrova l’unica cosa che le mancava e di cui credeva di poter fare a meno: il suo passato.
Nonostante la struttura classica e il meccanismo già visto del bambino “più adulto dell’adulto”, la storia non è poi così scontata. Se non altro, non è presente la svolta che l’habitué delle commedie americane si aspetterebbe: la manager che rinuncia al successo per trasferirsi in campagna e che molla il fidanzato ricco per rimettersi con lo spiantato amore d’infanzia. Le scelte di Margaret non sono banali e portano a riflettere su cosa, da adulti, ci separi dai sogni coltivati da bambini, sul loro vero significato, al di là delle apparenze.
“Voglio diventare una principessa”, scriveva da piccola. Desiderio assurdo e impossibile? Nel senso letterale, forse, ma non nelle sue implicazioni psicologiche. Ci sono molti modi in cui una donna può sentirsi una principessa, anche senza salire su un trono. Il viaggio di Margaret la mette a confronto con il sottile rapporto tra immaginazione e realtà, tra la percezione del mondo che si ha da bambini, senza il filtro della disillusione e del pessimismo e, soprattutto, senza il peso dei ricordi, e da adulti, quando la paura condiziona le scelte e la personalità.
“Diventa ciò che sei”, le ripete il mentore/notaio saggio, citando uno dei principi dell’esistenzialismo americano. Scegliere una strada tra le mille che un tempo sembravano possibili, non significa dovere per forza escludere le altre: un principio che gli adulti tendono a dimenticare con grande facilità. Accanto ai suoi pregi, però, il film mantiene i difetti delle commedie che vogliono a tutti i costi inserire elementi romantici in una storia che, invece, starebbe in piedi anche (e meglio) senza. Così, diventa inevitabile qualche caduta nello stereotipo e nella facile retorica, che rende il film a tratti un po’ sdolcinato.
Molto carina è la presenza delle affascinanti lettere che si scrivevano una volta, con ritagli e disegni incollati come un collage dadaista, che riesce a conquistare i nostalgici delle abitudini pre-Internet ma anche delle vecchie commedie giocate su toni soft e sui buoni sentimenti. Per questi inserti, il regista sembra prendere in prestito alcuni tocchi del Meraviglioso mondo di Amélie, senza però riuscire a eguagliarne la genialità.