Prendete un college, poi prendete dei ragazzi e metteteceli dentro con i loro desideri, i loro sogni e i loro problemi. Sembra facile fare un film con questi pochi eppur stimolanti argomenti. Diventa difficile soprattutto nel momento in cui il regista e lo sceneggiatore decidono di essere originali in quello che, forse, è il sotto-genere più tipico (e quindi abusato) del cinema statunitense. Si potrebbe tastare il terreno del fantastico (Voglia di vincere o il recente Twilight), spingere l’acceleratore sui personaggi tipici del luogo (la serie televisiva Glee) o giocare al ribasso senza snaturare nulla ma aggiornando ai tempi che cambiano, come succede in Mean girls (sempre un po’ troppo bistrattato). Oppure lo si può fare come lo avrebbe fatto John Hughes.

Olive Penderghast non è brutta, non è sfigata, non è neppure antipatica: è solo invisibile. La cosa non le dispiace poi molto, anzi, le permette di seguire con serietà gli studi, di coltivarsi le giuste amicizie e di ritagliarsi i suoi spazi all’interno del college (come un rapporto amicale con il prof. di letteratura inglese). Non le piace parlare della sua vita privata, forse perchè non ne ha veramente una, ma per far stare zitta l’amica di sempre, si inventa un finto appuntamento finito con una notte di bruciante passione. Quando la voce inizia a girare, il suo ruolo all’interno del college cambia improvvisamente: tutti si sono accorti che lei esiste e tutti pensano che lei sia una ragazza facile. Per prenderli in giro, Olive inizia ad andare in giro con una gigantesca A rossa sui vestiti e a costruirsi una fama di femme fatale del tutto inventata.

Il modello a cui fa riferimento Easy girl di Will Gluck, sembra essere a una prima occhiata quel 10 cose che odio di te che trasportava in un college americano La bisbetica domata di Shakespeare. In questo caso, l’opera letteraria a essere modernizzata è La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne, che diventa ai giorni d’oggi non più la storia di un’adultera, ma il racconto di una ragazza alle prese con le opinioni che la gente ha di lei. Sfruttando tutti i cliché del genere, la pellicola parla con grande ironia e buon ritmo del richiamo adolescenziale all’omologazione e il successivo passaggio al riconoscersi unici (con tutti i difetti e i pregi del caso).

 

La sceneggiatura di Bert V. Royal e la regia di Gluck cooperano per creare un film solido e divertente, capace di diventare uno dei migliori college-movie degli ultimi dieci anni e, al contempo, di dare una rinfrescata al genere contaminandolo con gli stilemi della moderna commedia americana, capace di giocare su toni stralunati e sopra le righe (vedi, ad esempio, i due genitori moderni di Olive). Easy girl riesce, però, nonostante questo, a essere il racconto delicato e appassionato di un’adolescenza. Il nume tutelare dell’operazione è certamente John Hughes (Breakfast club, Sixteen candles – Un compleanno da ricordare), vero narratore dell’adolescenza anni Ottanta, citato a più riprese nel film e ricordato direttamente con una delle scene più poetiche e divertenti della pellicola, in cui Olive si lamenta del fatto che la sua adolescenza non sia stata scritta da John Hughes.

La protagonista Emma Stone è l’attrice perfetta per portare sul grande schermo l’ironia spietata e la dolcezza ben nascosta della sua Olive, grazie ai suoi lineamenti dolcemente sbilenchi, le sue facce strane e la sua voce profonda (è un vero peccato che il doppiaggio italiano non mantenga questa peculiare caratteristica dell’attrice). Da Benvenuti a Zombieland, Emma Stone ci piace sempre di più e non aspettiamo altro che incoronarla come futura reginetta della commedia americana.