The fighter non è semplicemente un film sulla boxe. Non ci si picchia e basta. Certo, ci sono botte, pugni, lividi e sudore. E la seconda possibilità che ogni sogno merita di vedersi concessa. Tutto questo, prima ancora che al cinema, accade nel 1993, a Lowell, nel Massachusets, dove Dickie e Micky asfaltano strade al sole della provincia americana e vivono con passione il ring. Luno, Dickie, come ex lottatore il cui nome risuona come leggenda per aver battuto Sugar Ray Leonard. Mentre ora, consumato dal crack, allena con scarsa lucidità il fratello minore. Micky, appunto.
Il film, 7 nominations allOscar e 6 al Golden Globe per un totale di quattro premi vinti, ha un primo tempo sbilanciato su Dickie, il cui gancio pesa tuttora per quella storica vittoria tanto tempo fa. Al punto da essere ancora il protagonista, anche se a salire sul ring ora è il fratello. Come se il regista si fosse voluto soffermare sulle ragioni che hanno fatto di Micky un campione del pugilato. E preparare a un secondo tempo emozionante, in cui Micky, energia vincente grazie a tutto quello che lo circonda – la palestra, una famiglia claustrofobica che pretende di controllare ogni cosa, la figlia, Dickie, la sua fidanzata Charleene, le strade impolverate e calde di Lowell -, scopre di non essere un perdente.
giunta la sua grande occasione: il tuo momento, io ho avuto il mio e lho buttato via. Tu non devi farlo. Tu sei Micky Ward. Parole che rimbombano nella testa di Micky, istintivo nellascoltare suo fratello nella tecnica e nel cuore. E il ring si trasforma in un paradiso. Contro linferno di Lowell, che Micky non rinnega, ma di cui si nutre. Micky non vuole sfondare per sete di gloria e fama, ma per amore.
Combatte per soldi, per la sopravvivenza sua e di tutta la numerosa famiglia di origine – un padre innocuo, sette sorelle e una madre in disequilibrio tra l’affetto materno e zoppicanti capacità da manager -, ma soprattutto per la figlia. Per comprare una casa più grande dove accogliere la piccola, che ora vede solo ogni quindici giorni a causa dell’ex moglie, un’americana borghese che non crede più in lui, lo disprezza e si arroga il diritto di non concedergli un’altra chance. Mentre lui vorrebbe solo togliersi dal calore e dalla puzza di catrame.
È proprio per questa forza che Micky non è soltanto “il suo sogno che si realizza”, ma diventa anche la seconda possibilità di molti. Di Charleene, per esempio, l’ancora a cui il pugile si aggrappa quando crede di aver deluso tutti. Charleene, una laurea buttata via e un lavoro da barista, non gli permettere di abbandonare il suo sogno. Perchè lui ha cuore e talento. Soprattutto, però, Micky è “l’altra chance” del fratello Dickie, che un tempo fece storia e che ora è devastato dal crack. Al punto che la HBO realizza un film su di lui e sugli effetti che questa droga può avere. “Perchè i giovani devono sapere”, dice uno dei produttori.
Anche se Dickie e il resto della sua ingombrante famiglia ancora è convinta che quella macchina da presa stia girando il suo imminente ritorno al combattimento. Nessuno vede e tutti sanno. Dickie scappa dalla finestra di una casa di drogati per non deludere nessuno, ma quegli occhi scavati e le guance infossate – che hanno regalato a un grandioso Christian Bale il premio Oscar come migliore attore non protagonista – raccontano troppi tiri di crack. Solo Micky lo può salvare. Su quel ring, concedendogli la possibilità di allenarlo come faceva una volta.
Un legame che è soprattutto di sangue, di fratello maggiore verso fratello minore, di chi, nonostante una vita buttata via, ha insegnato tutto quello che poteva. E che è bastato. “È mio fratello, mi ha insegnato tutto. Senza di lui non posso farlo”. Amore fraterno, che come molte forme di amore, a volte fa male, ti porta all’inferno, ti costringe ad allontanarti, ma poi ricompare quel filo invisibile che guarisce tutte le ferite.
Bravissimi gli attori, da Bale e Melissa Leo – entrambi vincitori dell’Oscar e del Golden Globe come migliori attori non protagonisti – a Mark Wahlberg, tutti uniti nel valorizzare il tono non ruvido e greve, ma vissuto. Il regista ci fa sentire la miseria di questa piccola provincia americana, l’America vera, quella povera che arranca, quella sporca e sudata, quella che si droga fino a consumarsi per dimenticare i propri fallimenti, quella che puzza di catrame e che ha bisogno di credere che il ring – o altro -, vissuto con il cuore e il talento, può fare la differenza.