Presentato al festival del cinema europeo di Lecce, dopo essere passato a Torino, Henry dimostra lirritualità del suo autore Alessandro Piva: che dopo essere emerso come enfant prodige del nuovo cinema del 21 secolo (LaCapaGira) e aver cercato unaffermazione nel cinema di serie A (Mio cognato), cerca di non farsi risucchiare dalla pessima tv (La scelta di Laura) con un film tanto libero e indipendente da non aver trovato ancora una distribuzione.

Henry è il nomignolo criminale delleroina, quella che lega Gianni, accusato dellomicidio di uno spacciatore e di sua madre, la sua ragazza Nina, che si sente colpevole e dà involontaria protezione al vero colpevole, uno spacciatore rivale che vuole smascherare il tradimento di Gianni, il commissario Silvestri e il suo assistente Bellucci che indagano sul delitto. Doppi e tripli giochi, segreti e la resa dei conti finale.

Piva parte da un romanzo di Giovanni Mastrangelo e costruisce un noir crudo e violento, completamente girato in digitale a basso costo comincia con realismo frontale vicino a Caligari (Lodore della notte, Amore tossico) e finisce in un tripudio di spari, sangue, eccessi che paiono quelli di un Tarantino di seconda mano.

Il film sembra infatti una ronde intorno alla droga e alla dipendenza giocata sul versante criminale, a differenza del pessimo Il sesso aggiunto di Castaldo, anch’esso presentato a Lecce e in uscita il 29 aprile, che gira intorno alla filosofia della droga, che racconta una Roma periferica (Tor Pignattara e Centocelle) abitata da un’umanità corrotta eppure disperatamente vogliosa di riscatto, di vita e di amore: Piva utilizza moltissima camera a mano, il sonoro in presa diretta sporco e addirittura confessioni in camera su sfondo digitale come fosse un’inchiesta televisiva, ma poi quando deve far quadrare il cerchio si adagia su una poetica pulp di maniera, a base di botte, sangue e morti ammazzati che mandano a farsi benedire il verismo di fondo.

È questo il difetto principale, e grave, della sceneggiatura, nell’indecisione e negli sbagli di tono che rovinano una certa grezza forza del tratteggio di luoghi e personaggi, mentre la messinscena è spesso poco adeguata, ricordando quella di molti, troppi giovani cineasti alle prime armi che pensano che la somma di Tarantino, videocamera e indipendenza dia sempre come risultato la bellezza.

Spiace per Piva, che mestiere ne ha un bel po’, e per un cast ben composto in cui tra un Gioè figlio di Maurizio Merli e una Carolina Crescentini che migliora di continuo, l’unico a essere spaesato e fuori parte è il di solito impeccabile Paolo Sassanelli.