Tiziano Terzani era un grande giornalista, uno di quei corrispondenti che hanno dato lustro allepoca della carta stampata. Un uomo curioso, che ha imparato le lingue orientali ed è partito alla volta dellAsia per raccontare la Cina di Mao, le contraddizioni del Giappone, la trasformazione della Thailandia e la spiritualità dellIndia, sempre con lo sguardo critico e la passione di chi sa andare oltre le apparenze e gli stereotipi classici.

Ispirato allomonimo romanzo-testamento, La fine è il mio inizio è il film che cerca di restituire una personalità non comune, che ha trasformato la sua vita in una continua ricerca di risposte non banali e mai scontate. Privo di azione, è invece strutturato come un dialogo-intervista tra padre e figlio, con Bruno Ganz nel ruolo di Tiziano ed Elio Germano che veste i panni del figlio Folco, anche lui scrittore e documentarista che viveva a New York quando il padre lo richiamò a Orsigna, in Toscana, per un ultimo dialogo a cuore aperto. Terzani era malato di cancro e, dopo una vita trascorsa in viaggio, era tornato nella sua terra dorigine per la sua ultima avventura, come definiva la morte.

Tiziano racconta, attraverso piccoli e grandi episodi, quella che lui stesso definisce una storia di riscatto, dalle umili origini al successo, non inteso come il raggiungimento della fama o della ricchezza, ma come la realizzazione di una vita scelta in prima persona e vissuta fino in fondo. Guidato dal sogno della rivoluzione, della costruzione di un mondo nuovo e più giusto, era andato in Cina sulle tracce di Mao, rimanendone però profondamente deluso.

Durante i lunghi anni trascorsi in Oriente come corrispondente, Terzani si è calato completamente nella realtà locale, cogliendone i pregi e i difetti, maturando il disgusto per il modo in cui la modernità ha snaturato le civiltà millenarie dellAsia e il bisogno di una spiritualità che sperava di trovare in India. Si è lasciato attirare e insieme respingere dalle credenze, dalle superstizioni e dalle tradizioni religiose, mantenendo sempre uno sguardo critico e una visione pacifista, ostile a qualsiasi forma di guerra. Non esistono le guerre umanitarie. La guerra porta solo altra miseria e altra distruzione.

Lunica rivoluzione che può servire è la rivoluzione dentro di noi, dice al figlio, spiegandogli il motivo che lha condotto a seguire un corso di meditazione e a rifugiarsi, nel periodo della malattia, in una capanna isolata tra le vette dellHimalaya. Qui ha imparato a percepirsi come una parte del cosmo, di un cerchio che si apre e che si chiude nella natura, in comunione con gli altri esseri viventi.

Terzani non apparteneva a un credo, ma cercava una spiritualità che andasse oltre l’appartenenza a una chiesa e, come si scopre leggendo il suo romanzo forse più bello, Un indovino mi disse, era convinto che ciascun uomo dovesse cercare la fede nella propria cultura, senza lasciarsi incantare dall’idea che la risposta fosse dall’altra parte del mondo.

Il film, però, non è soltanto una riflessione sui massimi sistemi. Mostra i momenti di debolezza di un uomo che vuole morire ridendo, ma soffre perché il corpo non gli obbedisce più, che si preoccupa per i figli, che ha costruito con la moglie un rapporto di fiducia e di amore in grado di resistere a qualsiasi distanza.

Elio Germano è bravo a interpretare il tormento di Folco, che sembra vedere il padre come un modello, ma anche come un rivale e che lotta per cercare la sua identità. Tiziano lo spinge a gettarsi nella realtà individuando in lui quello che, in fondo, è il difetto dei giovani di oggi: la paura di sbagliare, che porta alla non-scelta, alla non-azione. La fuga dalle responsabilità di cui tanto si parla non nasconde forse il terrore di rimanere delusi e di soffrire? Terzani ricorda che solo da vecchi è consentito staccarsi dal mondo, quando arriva il momento di abbandonare le etichette date dalla professione e dal ruolo nella società per diventare “niente”, che in realtà significa “tutto” se vissuto come una comunione con l’universo.

Un film su Terzani si poteva fare in molti modi, perché la sua vita avventurosa offre molti spunti per raccontare delle storie capaci di ripercorrere gli avvenimenti fondamentali dei decenni scorsi in Oriente e infiniti aneddoti in grado di attirare il pubblico. La scelta di raccontare la fine, di lasciare un testamento spirituale, può essere apprezzata o criticata e di certo sfida le leggi dell’intrattenimento, ma non può lasciare indifferenti.

In un momento di tante chiacchiere, di rumore e di distrazione, è facile lasciare che il tempo scivoli via tra mille cose inutili, dimenticando, come diceva Terzani, che “la vita è un’occasione di felicità”. Questo film serve a ricordarcelo, invitandoci a costruire un’esistenza nella quale possiamo rispecchiarci con onestà, imparando a conoscere il mondo e, come disse Socrate tanto tempo fa, noi stessi.